lunedì 25 ottobre 2010

Corrispondenza non gradita


Per tutti coloro che non desiderano ricevere il libro "Due anni di governo" del Presidente del Consiglio e ritengono che queste somme andrebbero spese meglio, vi faccio leggere la mail che ho inviato al seguente sito governativo:

"Il sottoscritto D'Urso Giuseppe, residente a Catania in................., facendo riferimento all'annuncio del Presidente del Consiglio On. Silvio Berlusconi di inviare ad ogni famiglia italiana il libro "Due anni di governo"
con la presente intende comunicarVi che desidero assolutamente NON riceverlo, essendo un mio diritto in base al D. lgs 196/03 per la tutela della privacy e il relativo D. P. R. n. 501/1998, nella fattispecie articolo 13 comma e), e che la spesa relativa che si risparmierà, venga messa a disposizione del Ministero della Pubblica Istruzione e/o del Ministero della Sanità.
Ringraziando per l'attenzione con la presente porgo
Distinti Saluti.

Catania, 25 ottobre 2010

In fede

D'Urso Giuseppe

Chi desidera destinare a miglior sorte queste somme di denaro spese inutilmente può se lo ritiene opportuno trarne giovamento.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

venerdì 22 ottobre 2010

Mandate a dormire i bambini

Le righe che seguono non sono adatte ad un pubblico di minori perché leggendole potrebbero vederci nudi, spogli delle nostre mistificazioni e luccicanti delle nostre perversioni.

Pier Paolo Pasolini denunciò per primo in Italia, in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 9 dicembre 1973, la mutazione totalitaria che avrebbe determinato nella società italiana il nuovo potere della televisione, in un momento in cui dominava il monopolio paludato e perbenista della RAI-Tv pubblica e la televisione privata fosse solo agli albori. All’epoca l’allarme pasoliniano venne liquidato come eccessivo, pessimistico, antimodernista e ideologico. Ma riletto oggi appare per quello che era: una profetica identificazione dei tratti portanti della neo-civilizzazione della società italiana portata avanti negli anni Ottanta da parte delle Tv berlusconiane.

Pasolini argomentò, storicizzandoli, i pericoli totalizzanti connessi al nuovo potere televisivo, che definì nuovo fascismo, il potere “più violento e totalitario che ci sia mai stato” in quanto “esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze”.

Il fascismo mussoliniano “proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole.

La televisione, intesa chiaramente non come “mezzo tecnico , ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa” non si limita semplicemente a trasmettere i messaggi, ma è essa stessa “un centro elaboratore di messaggi. E’ il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E’ attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

L’autorità e la repressione operata dalla televisione è nettamente superiore a quella operata dai mezzi d’informazione di epoca fascista: “il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere”.

Se il fascismo non è riuscito con tutta la propaganda messa in atto nemmeno a scalfire “l’anima del popolo italiano” la televisione “non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Milioni di italiani, di qualunque età o fascia sociale, giocano come si fa in tv, mangiano come dice la tv, spendono come vuole la tv, vestono come hanno visto in tv, pensano in base alla tv, discutono di quello che ritiene la tv, piangono quando piange la tv, ridono quando ride la tv, sognano davanti alla tv, parlano come si parla in tv, scopano come vedono fare in tv, sono tristi o allegri a seconda di come lo è la tv, e la loro massima aspirazione è di comparire in tv. Per milioni di italiani, di qualunque età o ceto sociale, i divi televisivi sono “amici”, sono “gente di casa”, persone che fanno parte del quotidiano e come tali sono amati, ammirati, ascoltati, imitati. Tutto è tv, e ciò che non è tv non è.

Pier Paolo Pasolini venne brutalmente ucciso la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 nell’idroscalo di Ostia mentre il piano di rinascita democratica piduista si sviluppava allestendo una catena di Tv private “coordinate in modo da controllare la pubblica opinione media” come quella che iniziava a sviluppare l’emittente segratese Telemilano di proprietà berlusconiana proprio in quegli anni.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

venerdì 15 ottobre 2010

Le parole forse pesano, ma si pagano anche con la vita.

“Nascondere la verità significa interesse a celare un crimine, e significa perciò essere complici di quel crimine.”
Giuseppe Fava, giornalista siciliano, ucciso dalla mafia.

Giuseppe Fava, giornalista ucciso il 5 gennaio 1984 dalla mafia a Catania, nel 1982 fonda I Siciliani, rivista mensile che si ribella a Catania, città del monopolio dell’informazione locale, ai comitati d’affari che controllano la città e interagiscono anche con i poteri politici romani e con gli spregiudicati imprenditori settentrionali.

Nel numero di luglio del 1983 Fava firma un lungo articolo, intitolato “I 10 più potenti della Sicilia” , dove vengono passati in rassegna i 10 uomini potenti della Sicilia attraverso le cinque componenti essenziali che caratterizzano le manifestazioni del potere e che il giornalista individua nel denaro, nell’autorità dello Stato, nella forza politica, nella popolarità e nel talento.

In questa nostra società - sostiene Fava pensando e guardando la società italiana da Catania - comanda soprattutto chi ha la possibilità di convincere. Convincere a fare le cose: acquistare un’auto invece di un’altra; un vestito, un cibo, un profumo, fumare o non fumare, votare per un partito, comperare e leggere quei libri. Comanda soprattutto chi ha la capacità di convincere le persone ad avere quei tali pensieri sul mondo e quelle tali idee sulla vita.

Il comando è dunque capacità di persuasione a fare per modificare pensieri e comportamenti dell’opinione pubblica e in questa società così delineata fatta di teleconsumatori “il padrone è colui il quale ha nelle mani i mass media, chi possiede o può utilizzare gli strumenti dell’informazione, la televisione, la radio, i giornali, poiché tu racconti una cosa e cinquantamila, cinquecentomila o cinque milioni di persone ti ascoltano, e alla fine tu avrai cominciato a modificare i pensieri di costoro, e così modificando i pensieri della gente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, tu avrai creando la pubblica opinione la quale rimugina, si commuove, s’incazza, si ribella, modifica se stessa e fatalmente modifica la società entro la quale vive. Nel meglio o nel peggio!

Giuseppe Fava conosceva l’atto d’accusa di nuovo fascismo che Pasolini aveva lanciato al potere detenuto dalla televisione, intesa chiaramente non come “mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa”.

Questa requisitoria pasoliniana era stata scritta e pubblicata dal Corriere della Sera nel dicembre del 1973 e metteva sul banco degli imputati la RAI quale monopolizzatore unico dell’emittenza televisiva. Da lì a poco sarebbero iniziate a sorgere le tv private locali e a proliferare le radio private libere, fenomeni che Pasolini non sarebbe riuscito a veder sorgere e studiare perché venne barbaramente assassinato prima.

Giuseppe Fava assistette a queste “lotte di singoli o di gruppi per rivendicare libertà assoluta di informazione e indipendenza critica” e senz’altro nutrì una cauta fiducia nelle possibilità di liberare l’informazione dal giogo padronale pur consapevole che “la regola è sempre quella, e cioè che le macchine della informazione appartengono al padrone, e quindi anche pensieri e idee di coloro che usano le macchine per informare la società, debbono essere quelle dei padroni.

Il tema del potere dell’informazione “ingigantito dalla impossibilità di opposizione, può garbatamente amministrare anche la fortuna degli altri, agevolare o contrastare le grandi potenze economiche, ostacolare o favorire gli accumuli di ricchezza, determinare la destinazione del denaro pubblico, la crescita o la decadenza di un uomo politico, la sonnolenza o la ribellione di un grande organo giudiziario.

A volte – e noi che viviamo nella società prodotta dalla neocivilizzazione berlusconiana lo sappiamo benissimo - basta omettere una sola notizia e un impero finanziario si accresce di dieci miliardi; o un malefico personaggio che dovrebbe scomparire resta sull’onda; o uno scandalo che sta per scoppiare viene risucchiato al fondo.

Nell’autunno del 1979 la Fininvest, società costituita da 23 holding e alla cui presidenza era stato nominato dal consiglio d’amministrazione Silvio Berlusconi, aveva originato una serie di società “televisive” quali Publiitalia srl, Rete Italia srl, Cofin spa e Canale 5 srl, società intestata ad un prestanome alla quale viene conferita la proprietà di Telemilano, la tv condominiale creata da Silvio Berlusconi nel settembre del 1974, che infatti inizia a trasmettere con il nuovo logo Canale 5.

“L’avvento delle televisioni private, moltiplicando gli strumenti di informazione, pareva avesse stravolto gli antichi assetti di potere, determinando una caotica ma febbrile evoluzione della conoscenza popolare” ed in effetti era iniziato un proliferare di iniziative in tutta la penisola che comunque pur restando il loro ambito circoscritto per legge a quello locale avevano la possibilità di informare ed indagare meglio il territorio.

Ma il piano di rinascita che eseguiva Silvio Berlusconi non poteva esser fermato da una legge e da due pronunciamenti della Corte Costituzionale per cui la diffusione sul piano nazionale, vietata dalla legge, veniva aggirata con la registrazione di cassette contenente anche gli spazi pubblicitari da mandare in onda che venivano consegnate a mano alle emittenti che entravano nell’orbita del nascente network, aggirando così il divieto di diffusione via etere.

Quello che doveva esser un movimento di libertà dell’informazione e di rottura della monolitica informazione della RAI si riduce ad un proliferare di furbi con l’editore Rusconi che nel gennaio 1982 fonda il network di 18 emittenti televisive chiamato “Italia 1” contemporaneamente all’editore Mondadori che crea il network televisivo “Rete 4” costituito da 23 emittenti.

In capo ad un anno Rusconi aveva già ceduto a Silvio Berlusconi il network “Italia 1”e qualche mese dopo la morte di Fava anche Mondadori cedette “Rete 4” a Silvio Berlusconi che poteva dare trionfalmente inizio alla demolizione della cultura, dei valori e dei comportamenti di milioni di italiani: “lo strumento è dapprima decaduto a semplice e spesso squallido spettacolo, e infine, con il sopraggiungere dei net-work è stato anch’esso consegnato alle mani dei tradizionali padroni dell’informazione.

E questi padroni dell’informazione sono rappresentati dal “grande capitale settentrionale” che inizia ad affacciarsi ormai da diversi mesi nel campo editoriale e televisivo anche in Sicilia mentre Fava ne scrive la denuncia. Non poteva a Fava sfuggire che la Fininvest era diventata azionista con la quota del 4,71% delle azioni dell’unico quotidiano oggi del più potente al tempo in cui Giuseppe Fava.

Quella che poteva essere una grande rivoluzione tecnica e civile, cioè una autentica presa di potere da parte di un giornalismo inteso nel senso più alto e morale del termine, si è risolto in una ulteriore colonizzazione culturale.

E in queste sue parole leggiamo tutta la delusione di un uomo, di un siciliano, di un giornalista che vede svanire l’ultima illusione e che da lì a pochissimi mesi pagherà con la vita, ad opera della mafia, le sue incessanti denunce ai loschi intrighi dei comitati politico-affaristico-mafiosi.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.





lunedì 11 ottobre 2010

Dal Wall al Web (II parte)


Nel sistema della Guerra fredda la struttura del potere ruotava essenzialmente attorno allo stato-nazione e l’equilibrio era mantenuto dalla tensione che si sviluppava tra queste due Super stati-nazione con i singoli stati più deboli che venivano da queste super-potenze attratti alla loro sfera d’influenza, come la limatura di ferro è attratta in modo repentino ed inesorabile da un potente magnete.

Il sistema della globalizzazione ruota intorno a tre equilibri che si sovrappongono ed influenzano a vicenda.

Il tradizionale rapporto di equilibrio di potere tra stati-nazione, dopo la dissoluzione dell’impero sovietico, è stato sconvolto ed ora il panorama mondiale è dominato da una sola superpotenza: gli Stati Uniti: sono loro appunto ad esercitare il precedente ruolo senza più un stato-nazione opposto; ma pur muovendo molte pedine nello scacchiere mondiale degli equilibri di potere, gli Stati Uniti non le muovono tutte.

Il monopolio delle grandi super-potenze (anzi più correttamente il “duopolio”) è stato incrinato dall’affermazione nel sistema degli equilibri di un nuovo soggetto rappresentato da quei mercati globali, costituiti da milioni di investitori che muovono denaro in giro per il mondo con il semplice click del mouse. Questo universo variegato e vasto di investitori, che Friedman chiama mandria elettronica, ama darsi convegno in alcuni grandi centri finanziari del mondo, quali Wall Street, Londra, Hong Kong, Francoforte e altri, dal nostro definiti super-mercati: è in questi templi che si officiano i riti della finanza e decidono i destini economici di imprese, di intere nazioni e di singoli individui e la rete consente a tutti di esser spettatori se non protagonisti di questo “spettacolo edificante” dove uomini e cose si sciolgono in cifre in un luogo geografico e si materializzano in ricchezza o in miseria in un altro punto del globo.

Per comprendere meglio il gioco degli equilibri che si viene ad istaurare tra i due elementi (stati-nazione e super-mercati) basta pensare che al tempo della guerra fredda per rovesciare il governo di un paese bisognava, da parte delle superpotenze, sommergerlo di bombe, mentre oggi basta, da parte dei super-mercati abbassare il rating di quel paese per mettere in seria difficoltà, e possibilmente rovesciarlo, il suo governo.

Infine vi è un terzo polo di equilibrio che deve necessariamente esser ricercato dai due precedenti e che ha goduto di poca, anche se qualificata, pubblicistica che comunque non è stata sufficiente a raggiungere l’immaginario e la conoscenza collettiva, probabilmente perché si tratta di interlocutori, prima della globalizzazione, sconosciuti in queste vesti e neppure pensati quale dotati di una potenza ed enorme capacità di intervento: gli individui super – potenti.

Questi individui, che possono essere persone meravigliose oppure terribilmente arrabbiate, molto lontane geograficamente e culturalmente da noi oppure estremamente prossime, tramite la rete godono oggi di un potere straordinario che consente loro di comunicare a grande distanza o di parlare in maniera diversa anche con lo stesso vicino con cui potrebbe comunicare verbalmente; di procurarsi in qualunque mercato mondiale qualunque strumento gli sia necessario a costi non più proibitivi e di condurre, con un semplice strumento di posizionamento satellitare, come fino a non molto tempo fa vedevamo solo bei film, qualunque mezzo, senza limitazioni spaziale e temporali.

La globalizzazione funge da moltiplicare straordinario alla potenza dei singoli che possono intervenire in prima persona sulla scena del mondo senza più la mediazione o la limitazione di uno Stato e con una forza infinitamente maggiore rispetto al passato, anche recente al punto che una nazione tecnologicamente avanzata può impiegare mesi per chiudere un buco scavato a 3 km di profondità in un oceano o riportare in superficie uomini a poche centinaia di metri, mentre un singolo individuo può, dal proprio salotto o dalla grotta in cui vive, purché ci sia connessione, far cadere su una città un satellite che ruota in orbita attorno alla Terra a decine di chilometri.

A tutti color che, leggendo quanto esposto, ritengono quest’ultimo punto esagerato, rivolgo questa semplice riflessione: selezionate in rete, tra blog e community a vostra scelta, un individuo molto arrabbiato e che possieda le caratteristiche tipiche dell’opinion leader, pur non essendo ancora conosciuto dal grande pubblico dei media tradizionali; dotatelo di mezzi economici straordinari che gli consentano di potersi dedicare appieno alla propria causa senza le preoccupazioni quotidiane della sussistenza e con la possibilità di procurarsi mezzi tecnologici sempre più avanzati, ed avrete prodotto un nuovo Bin Laden.

E se anche dinanzi a questa evidenza riterrete che in ogni caso, per quanto super-potente, un individuo non possa rappresentare un polo di equilibrio tra i poteri mondiali, vi invito a riflettete sulla circostanza che dal 2001 la più grande potenza mondiale, se non economica, certamente militare, sta combattendo in Afghanistan l’unica guerra nella storia dell’umanità che vede fronteggiarsi frontalmente una super-potenza e un individuo super-potente quale Bin Laden.

In conclusione, per comprendere ed interpretare il mondo globale in cui viviamo, dobbiamo sempre considerare che nel sistema degli equilibri, al fianco delle super-potenze (economiche e militari) vi sono i super-mercati e gli individui super-potenti, persone magnifiche o molto arrabbiate, e che tutti questi tre elementi agiscono ed interagiscono tra loro al punto da condizionarsi a vicenda. - fine.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

Dal Wall al Web


Il tratto saliente del sistema politico, militare ed economico sorto alla fine del secondo conflitto mondiale e conclusosi alla fine degli anni Ottanta, comunemente chiamato sistema della Guerra Fredda, era la divisione e il simbolo per eccellenza di quel sistema era rappresentato da un’unica parola: muro.

Il sistema della globalizzazione, nato alla fine degli anni Ottanta, ha invece quale tratto distintivo l’integrazione ed è anch’esso comunemente rappresentato da un’unica parola: web, ossia la rete mondiale.

Prima di affrontare l’analisi dell’evoluzione dei sistemi di potere e dell’equilibrio che tra loro si stabilisce, definiamo in maniera inequivocabile cosa intendiamo con il termine globalizzazione, per evitare che l’ormai incontrollato uso, diffusione ed applicazione ad ogni contesto lo renda simile ad altro termini, che, per diffusione e abuso nell’uso sono stato a tal punto ridicolizzati da assomigliare più ad un mantra recitato che non ad una metodologia da seguire.

Negli anni Settanta questa sorte tocco in Italia al termine disarticolazione, a tal punto abusato da ritrovarlo in ogni rivendicazione e in tutte le analisi geopolitiche, sia che si parlasse delle poste di Sesto San Giovanni sia dell’impero delle multinazionali, sia dell’etica del mondo del lavoro sia della lotta di classe etc.

Il primo decennio del XXI secolo invece ha adottato quale preghiera scaccia crisi, capace di esorcizzare ogni male, i termini innovazione e ricerca, di cui tutti si riempiono la bocca al punto che in Italia non siamo più capaci di comprendere per quale motivo tutti coloro che la invocano la indicano agli altri quale percorso metodologico da battere e nessuno di coloro che la invoca la intraprenda seriamente; siano essi governi o grandi imprese, piccole e medie imprese o lavoratori.

Probabilmente la risposta al quesito sta nel fatto che innovazione e ricerca costano e qualcuno questi costi li deve pagare: tutti sono pronti a goderne interamente i benefici ma nessuno vuole addossarsi neanche parzialmente i costi. Ma torniamo alla definizione di globalizzazione che voleva fissare.

Personalmente condivido la definizione di “globalizzazione” coniata da Thomas L. Friedman, opinionista americano vincitore di tre premi Pulitzer e curatore di una rubrica bisettimanale sul The New York Times.

Le ragioni di questa predilezione tra le tante definizioni ugualmente valide e condivisibili risiede nell’aver da parte di Friedman individuato quale cuore del fenomeno “globalizzazione” la rete di relazioni e le relazioni attraverso la rete.

Alla luce di quanto affermato intenderò, in questo contributo che condivido, con il termine “globalizzazione” l’integrazione inesorabile e senza precedenti, di mercati, sistemi di trasporto e mezzi di comunicazione che permette alle imprese, alle nazioni ed ai singoli individui di raggiungere i luoghi più lontani con una rapidità, una profondità ed una economicità inusitate e contemporaneamente al mondo di raggiungere, con identica rapidità, profondità ed economicità, le imprese, le nazioni e i singoli individui dai luoghi più lontani.

Il sistema mondiale governato dalla guerra fredda ci dotava delle certezze che eravamo tutti divisi e che al timone si trovavano due persone: i presidenti degli Stati Uniti d’America e dell’Unione Sovietica.

Nel sistema della globalizzazione internet ci assicura che siamo tutti collegati ma che nessuno governa la nave o tanto meno può tracciare la rotta senza rischio che qualcuno se ne accorga.

Tanto più la rete si diffonde, tanto maggiore diventa la reazione di coloro che da tale diffusione si sentono sopraffatti, si considerano omologati, oppure semplicemente si percepiscono incapaci di tenere il passo degli altri.

Quanto più questi individui vengono da noi emarginati, tanto maggiore sarà in loro la rabbia che monterà pronta a scatenarsi contro coloro che, seppur noti o appartenenti alla loro comunità, non riconosceranno più come simili ma temeranno come diversi, solo perché questi avranno iniziato a mutare, attraverso l’uso del web, le proprie categorie di pensiero, aprendosi a realtà concettualmente diverse e geograficamente distanti. - continua...

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

Le officine del dissenso


“Coloro che hanno aperto gli occhi alla gente,

le rimproverano la sua cecità.”

John Milton

Nel 1998 Noam Chomsky, considerato il massimo linguista contemporaneo, ed Edward S. Hermann, docente di finanza alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, pubblicano il saggio Manufacturing Consens, tradotto e diffuso in Italia nello stesso anno, e successivamente ampliato e ristampato, con il titolo La fabbrica del consenso.

Nella pubblicazione i due autori americani dimostrano, dati alla mano, le responsabilità di un occulto consenso d’élite nel dare forma alle notizie svelando i meccanismi attraverso cui il mondo dell’informazione mobilita l’opinione pubblica per sostenere e difendere gli “interessi particolari” che dominano nella società.

La patria del Pulitzer, del giornalismo aggressivo, ostinato, sempre presente sul luogo dell’evento e sempre impegnato nella ricerca della verità, così come viene rappresentato e immaginato dal grande pubblico, non corrisponde alla realtà concreta e alle logiche dettate, imposte o più semplicemente accettate dagli editori e dai giornali americani.

Nei saggi che a partire da oggi inizierò a pubblicare sul blog, e di cui questo scritto rappresenta una sorta di premessa, mi occuperò di quelle che io chiamo le officine del dissenso, per contrapporle alle fabbriche del consenso.

Contrapposizione che già è possibile scorgere nei due termini:

la fabbrica,

quale luogo di produzione industriale per il grande pubblico;

l’officina, luogo invece di produzione artigianale, e spesso di riparazione dei guasti dei prodotti sfornati dalla fabbrica, per un pubblico ridotto, quasi di nicchia.

Finché le dimensioni produttive sono rimaste quelle descritte, e così è stato fino al tempo che ha preceduto la diffusione del web nel mondo, la fabbrica non ebbe motivo di temere assolutamente l’attività dell’officina; anzi quest’ultima rappresentò la valvola di sfogo per coloro che lamentano insofferenza e mancanza di controinformazione, esigenza sempre latente in una società evoluta.

Per quanto l’officina non accettò mai questa convivenza e denunciò sempre le manipolazioni della fabbrica, questa riuscì a soffocare le denunce e la controinformazione grazie al controllo costante dei mezzi d’informazione di cui disponeva, o della cui malleabilità poteva contare, operando vere e proprie strategie di distrazione di massa, per usare una felice ed efficace formula atta a descrivere la martellante e a più voci azione di distoglimento dell’opinione pubblica dai temi concreti di pubblico interesse.

Spesso però la voce del dissenso si faceva insistente, riuscendo a filtrare tra le crepe del macigno posto dai padroni dell’informazione e ad insinuare anche solo semplicemente il dubbio nell’opinione pubblica riguardo le notizie che le venivano date in pasto e di cui preventivamente si era fatto sorgere il bisogno.

In Italia, perché parleremo della realtà italiana, ma non solo ovviamente; questi tentativi nell’era prima del web, sono stati pagati con la vita, ed in genere ci raccontano che è stata solo mafia, mentre ci sarebbe ragione di credere che altri precisi interesse abbiano, se non guidato, senz’altro favorito, la mano delle mafie.

Al lettore sarà data la possibilità in ogni saggio che da oggi in poi sarà pubblicato, di formarsi un’opinione precisa su quali mafie abbiano ucciso gli artigiani del dissenso, le cui colpe, lo ripetiamo erano solo quelle di non allinearsi alle posizioni stabilite dalla fabbrica del consenso e di pretendere di fare corretta e onesta informazione.

Il primo saggio che segue questa premessa, dal titolo Dal Wall al Web, si propone di inquadrare i sistemi di equilibri di potere mondiali nell’epoca precedente all’avvento di internet e nel tempo della diffusione della rete.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

lunedì 4 ottobre 2010

Troppe volte ritornano

Tutto previsto! La solita vecchia musica.
Loro intonano un lamento antico, quello dell'abbassare i toni, sperando che con ciò noi mettiamo la testa sotto la sabbia per ovattare meglio le nostre proteste.
Noi siamo costretti a riscrivere e ritornare sempre sui soliti discorsi.
Dodici mesi fa (22 ottobre 2009) Micromega pubblicava un mio contributo dal titolo "Minacce su Facebook, due pesi e due misure" (http://temi.repubblica.it/micromega-online/minacce-su-facebook-due-pesi-e-due-misure/).
Non è cambiato nulla! Tutto è rimasto immutato! Anche le loro brutte e avide facce.
L'avrei potuto scrivere stamani; lo potrò scrivere domani; lo potrò riscrivere anche tra un anno.
Finché loro saranno presenti nulla cambierà veramente!
Ne riporto un passo per comodità di lettura:
"da qualche giorno, con un sincronismo ad orologeria, veniamo quotidianamente informati di minacce di morte rivolte, in forma di lettera anonima e di gruppi costituiti su social network, al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Minacce, ritenute dai correi del Premier, talmente serie da prefigurare, leggiamo sui giornali di oggi, “l’apologia di reato” e sintomatiche dell’esistenza di un “problema di cultura”; in questo modo si sono espressi il Ministro della Giustizia On.le Alfano e il Ministro dell’Interno, On.le Maroni.
La loro indignazione, mista a preoccupazione, si spinge al punto da chiedere, oltre alla chiusura delle pagine che tramite il web offendono e minacciano Berlusconi, la denuncia degli utenti alla magistratura.
La motivazione manifesta dal Ministro Maroni può esser riassunta in queste righe che riportano fedelmente il suo pensiero: “se passa il concetto che uno può scrivere impunemente queste cose, c'è il rischio che poi a qualcuno venga in mente di metterle in atto. Non riesco a capacitarmi che ci sia qualcuno che possa esprimere l'intenzione di uccidere un'altra persona.” (Corriere della Sera)
Eppure i Ministri Maroni e Alfano non manifestarono le stesse preoccupazioni riguardo alla possibilità di “scrivere impunemente queste cose” quando, nello stesso social network oggetto di attenzione e monitoraggio, si inneggiava alla legittimità delle torture inferte ai clandestini, probabilmente perché conosceva buona parte dei circa 400 iscritti tra cui figuravano il senatore Umberto Bossi, suo figlio Renzo e il capogruppo alla Camera dei Deputati per la Lega Roberto Cota.
Allora possedevano ancora la capacità di distinguere tra la boutade, anche di pessimo gusto quale la minaccia di morte di un individuo, e l’istigazione a delinquere. I fatti delle settimane ormai trascorse hanno dimostrato invece che il picchiare un giorno gli extracomunitari, l’altro gli immigrati clandestini, l’altro ancora gli omosessuali, non sono rimaste lettera morta, ma hanno trovato esecutori ed è venuto in mente a qualcuno di ”metterle in atto” in diverse città d’Italia senza che nessuno pensasse di denunciare alla magistratura i 400 utenti che sotto queste minacce si ritrovavano e, almeno formalmente condividevano.
Non sono a conoscenza di indagini in corso da parte di alcuna Procura della Repubblica riguardo le notizie di reato presenti in quelle farneticazioni, né mi risulta che i due autorevoli rappresentanti del Parlamento Italiano siano stati oggetto di indagini da parte degli organi giudiziari competenti per status e incarico istituzionale."

venerdì 1 ottobre 2010

Il mancato martirio del Belpietro


Puntuale come ogni anno, come le vecchie compagnie teatrali di giro e il circo, ecco l'ennesima replica della pantomima dei falsi attentati.
L'anno scorso ci è stata servita e rappresentata la scena del volo dell'ambrogino; quest'anno cambia l'attore protagonista ma il canovaccio è sempre lo stesso.
Dovremmo dunque credere, stando così le cose che i servizi di scorta sono costituiti da persone da definire quantomeno inette e inadatte allo scopo.
Il Basso Sultano sarebbe dunque scortato da una manica d'imbecilli che, visto colpito il soggetto da proteggere, anziché allontanarsi quanto più rapidamente possibile dal luogo della minaccia, gli fanno tenere un comizio dal predellino dell'auto.
Il giornalista Belpietro invece affiderebbe la propria incolumità a uomini che vedendosi puntata contro una pistola (da un uomo vestito da finanziare: con la camicia e la tuta!!!) anziché compiere un gesto naturale di autodifesa, sparano in aria per intimorire il malintenzionato!
Delle due l'una: o stiamo giocando con il fuoco, qualcuno si diverte a gridare al lupo! e queste responsabilità vanno indagate e punite; oppure qui si vuole accreditare la classica storia ormai trita e ritrita che non si può criticare Berlusconi e i suoi sodali perché altrimenti si aizzano le menti malate e pericolose.
Per quanto mi riguarda è l'ennesima farsa in salsa d'arcore.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania










mercoledì 29 settembre 2010

L'ora della verità

Jonathan Swift sosteneva che "il capo del governo inglese non dice mai una cosa vera senza l'intenzione che sia presa per una menzogna; non dice mai una cosa falsa, se non con lo scopo che sia presa per la verità."
E non aveva ancora conosciuto il nostro di capo del governo.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania


PAPI - Tafano broders

venerdì 24 settembre 2010

Se avete gradito la prima....

Prometto che è l'ultima della serie....
Non intendo continuare per questa via....
Come sosteneva Oscar Wilde "ridere non è affatto un brutto modo per iniziare un'amicizia".
Questo post è dedicato a tutti gli amici, vecchi e nuovi, presenti o che verranno

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

martedì 21 settembre 2010

Quando la parola non aggiunge nulla

L'artista è capace di esprimere in versi ciò che altri esprimono solo con la prosa.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

lunedì 6 settembre 2010

Storia e sbarchi


“Canto l’uomo che primo da Troia venne in Italia”. Così Virgilio apre il primo libro dell’Eneide accingendosi a raccontare le vicende di Enea che fugge dalla sua terra natia, devastata dalla guerra, e migra verso altri lidi che auspica più ospitali e felici e dove spera di poter ridisegnare il proprio avvenire e garantirlo migliore alla propria discendenza.
Il viaggio che lo conduce “sui lidi di Lavinio” è a “lungo travagliato e per terra e per mare”, come quello che migliaia di uomini compiono ogni anno per sbarcare sulle nostre spiagge e lasciarsi alle spalle guerra, persecuzioni e miseria, perché Enea ieri, come loro oggi, “molto soffrì anche in guerra”.
Noi rileggiamo la storia del “profugus” Enea mentre contemporaneamente altri profughi, novelli Enea con le loro speranze, timori e ricordi delle terre lasciate, a distanza di qualche miglio, celebrano il loro sbarco sui nostri lidi.
La storia delle migrazioni degli uomini è sempre la stessa da secoli: è un cielo costellato di abbandoni, lacrime, speranze, lutti, fallimenti e successi.
Cambiano però le società che accolgono questi esuli e il loro grado di civiltà nell’accoglierli e offrire loro la possibilità di programmare un futuro diverso dal passato che si lasciano alle spalle.
Quasi quindici secoli fa imbarcazioni cariche di disperati salpavano dal Nordafrica, dal Medio Oriente, dai Balcani, e attraversavano il Mediterraneo alla ricerca di una nuova vita in Italia per sbarcare in Sicilia e in Calabria dove venivano accolti dalle locali autorità che provvedevano a sfamarli e ad organizzare la loro sistemazione o in loco o facendoli affluire più a Nord, verso Roma. Non erano, come oggi, i dannati della terra in fuga dalla miseria: erano i profughi dell’immenso sfacelo dell’impero romano. Era il tempo dove dallo sfacelo non fuggivano i poveri visto che quelli restavano sul posto e imparavano a convivere con i nuovi padroni assumendone con il tempo l’identità. Fuggivano invece i componenti della classe dirigente, vescovi, generali, latifondisti, senatori, chierici e monaci, animati dalla certezza che l’impero avrebbe saputo ricollocarli e far uso del loro capitale umano. Per loro non c’era al di la del mare l’ignoto dato che tutti loro parlavano latino o greco e si sarebbero ritrovati a casa loro in un’Italia ancora cosmopolita. Un orizzonte ben diverso rispetto a quei profughi d’oggi che si usa etichettare come i nuovi schiavi, e che assomigliano a quelli che per lunghi secoli il Mediterraneo ha riversato nei porti d’Italia.
Alessandro Manzoni, nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi, nel descrivere il pranzo di nozze offerto dal marchese, erede di Don Rodrigo, ai novelli sposi Renzo e Lucia; non manca di sottolineare, con un garbato rilievo, “l’umiltà” del marchese il quale prima di ritirarsi a pranzare altrove con Don Abbondio, volle stare lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli.
Ironicamente il Manzoni subito ammonisce il lettore dal pensare che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola, perché il marchese era un brav’uomo, ma non (…) un originale, come si direbbe ora – e aggiungiamo noi come si direbbe ancor oggi e non solo ai tempi del Manzoni – v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. La vera umiltà è nel cuore e nell’animo dell’uomo e non nelle esibizioni esteriori.
Se l’Innominato, in una profonda costrizione interiore, ha saputo mettersi alla pari con i suoi perseguitati, il marchese non può perché il suo ruolo è piuttosto esteriore e il gesto di aiutarli e servirli è più un atto di umiliazione che di umiltà.
N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.
Se anche noi – tutti! – quotidianamente anziché assumere l’atteggiamento occasionale dell’umiliazione, del metterci al di sotto di quella buona gente, adottassimo l’habitus mentale e morale perenne dell’umiltà, dell’istar loro in pari, probabilmente raggiungeremmo risultati lusinghieri ed egregi nella via che conduce alla società multietnica e multiculturale.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania

Cercare e cercarsele.


Personalmente sono uno "che se le cerca".

Uso volontariamente quest'espressione recentissima, pronunciata da una nostra vecchia (nel senso pieno ed esaustivo del termine) conoscenza romana, per definire il sacrificio di un servitore dello Stato.

Ma ormai in un calendario laico pieno di eroi mafiosi, di perseguitati piduisti, di martiri corruttori, un posto, un giorno lo si troverà anche per il Giulio romano.

Io, come anticipavo nell'incipit, cerco notizie, le commento e le restituisco al mondo che me le fornisce per riceverle arricchite dai commenti di chi mi gratifica leggendomi.

E' innegabile dunque che "chi cerca" se le "cerchi".

Tra le notizie degli ultimi giorni mi sono imbattuto in una nota d'agenzia che riportava la notizia del controllo della polizia inglese effettuato su Mario Balotelli, fermato alla guida di un'autovettura e trovato dagli agenti con qualche migliaio di euro in contanti.

Tralascio la risposta spocchiosa del ragazzino ("sono ricco e me lo posso permettere") avrà modo e tempo di trovare da se ridicole queste affermazioni. Mi concentro invece sull'episodio in sé che mi appare curioso e segna i tempi: il dover giustificare il possesso del denaro che si tiene in tasca.

Curioso perché agli albori dell'unità d'Italia erano gli inglesi a rimproverarci e ad additarci alla pubblica opinione del tempo quale regime poliziesco.

Il conte di Cavour durante una riunione nel circolo dei nobili di Torino su vantò del rispetto dei principi liberali che distingueva la polizia nel Piemonte sabaudo al punto da non esser, per rispetto della libertà individuale, inferiore a quella inglese.
Racconta una cronaca del tempo che tra gli invitati vi fosse un giovane cronista inglese che rivolgendosi al conte di Cavour gli disse: “Signor capo del governo, per tagliar corto alle discussioni accademiche facciamo una scommessa: prima di notte senza violare alcuna legge sarò imprigionato.”
Conoscendo il gusto per la scommessa degli inglesi e non volendo esser scortese, Cavour accettò, quasi per “onor di firma”.
La cronaca così prosegue: “Il giovane inglese, uscito di là, si truccò mirabilmente da cialtrone, indi, a sera inoltrata, si ridusse in una bettola di Piazza Italia dove bazzicava la gente di malaffare. Bevette vistosamente, poi, quando gli parve esser abbastanza brillo, estrasse per pagare un involto contenente alcuni biglietti da mille. Tanto bastò! Venne adocchiato, denunziato, ghermito. Quando fu in carcere, mandò al suo contraddittore due righe di lettera: Signor conte sono in prigione senza aver fatto niente, venga a liberarmi.”
Gli inglesi vittoriani si stupivano allora della possibilità che, nell’Italia liberale, si potesse esser arrestati senza alcun motivo.
E si stupiscono ancora oggi per il fatto che nel nostro paese, dopo un secolo e mezzo, non si possano rivolgere domande al Basso Sultano per indagare l'origine delle sue fortune economiche.
Ma quello era il XIX secolo, altri tempi, tempi bui, diversi dai nostri ossigenati dagli zefiri della democrazia e della giustizia e dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

lunedì 30 agosto 2010

Il circo libico a Roma


Queste riflessioni nascono dalla cronaca e si riversano sulla cronaca dei nostri giorni.
Vorrei sapere perché il Ministro dell'Interno (ormai lo dobbiamo chiamare così, dell'"Interno", come se si parlasse di fatti privati, di episodi da condominio e non più, correttamente, degli "Interni", degli Affari Interni) Maroni non si sta adoperando per un respingimento, visto che si fa vanto di cacciare i criminali dal nostro Paese e il sindaco di Roma Alemanno, che tanto a cuore ha le occupazioni abusive da parte di clandestini, non si sta prodigando a sgombrare l’accampamento abusivo che Gheddafi sta impiantando? Probabilmente il Basso Sultano e tutta la consorteria che si porta dietro sono succubi del pagliaccio libico e del suo circo fatto di tende, amazzoni e cavallerizzi….
Naturalmente il rigore, gli sgomberi, le tessere del tifoso, le espulsioni valgono al solito, alle solite, per i più deboli.
Quando si tratta di proibire, inquisire e punire i più deboli questi loschi figuri accorrono a sciami, come le mosche alla.....
Peccato che la Chiesa si stia lentamente aprendo al mondo. Se si fosse arroccata al tempo di Filippo II, dell'inquisizione più feroce, vi si sarebbero riconosciuti e si sarebbero sentiti conosciuti.
Ma probabilmente stanno meditando di passare a frequentare la Chiesa di fronte....
Giuseppe D'Urso, insegnate molto precario, da Catania.

venerdì 13 agosto 2010

Le ceneri della cena


“Cinerem tumquam panem manducabam.”
Giordano Bruno, La cena de le ceneri.

Raccontano le cronache di fine impero di un susseguirsi di cene che hanno puntellato e punteggiato le ultime settimane romane.
In una circostanza il Basso Sultano è stato ospite, seppur d’onore, di un cittadino dalla vista d’aquila che festeggiava non si sa quale anniversario di inizio attività professionale e per l’occasione il Biscione si accompagnava con la figlia diletta per farle conoscere il bel mondo dell’editoria, della finanza e della politica; in altre invece vestiva i panni di anfitrione per circondarsi di antichi amici e nuovi e fedeli servitori con cui trascorrere e celebrare le macabre e oscene ore liete del potere.
Se la prima cena era un’intima occasione per riannodare fruttuose relazioni, ardire nuove trame di potere e di ricchezza, rovesciare antiche alleanze e restituire tradimenti; l’atmosfera della seconda era quella di una compagnoneria facile e sguaiata, impreziosita da grida di sorpresa, da scherzosi insulti, da abbracci e manate.
L’invito che il Basso Sultano aveva rivolto ai suoi signori Senatori e signori Onorevoli era all’insegna della meditazione sul da farsi e di bilancio delle attività di governo fatte e da fare, bilancio consuntivo e di previsione; ed è facile immaginare un costante parlarsi all’orecchio tra i vicini e cenni e sorrisi di saluto per i lontani, mentre l’anfitrione teneva sermone.
Sicuramente avevano avuto modo di meditare gli illustri ospiti e ne avranno dato prova con l’ansietà di comunicarsi i risultati delle meditazioni che si scioglievano in piacenti aneddoti a carico di amici-nemici e di nemici-amici, adulazioni, condiscendenti apprezzamenti e qualche barzelletta oscena piuttosto datata.
Ma è nel dopo cena che il menù lasciava il passo al parlar figurato e l’inappetenza di qualcuno e la fame dei più erano elevate ad argomento pressante di cui discorrere: quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato ancora, non vuole mangiare, vuole, non può, bisogna farlo mangiare, deve finirla di mangiare tanto, c’è un limite al mangiare e così via.
Crediamo che in queste e altre cene il Basso Sultano firmi le sue scellerate cambiali con gli ambienti affaristici-massonico-mafiosi e che alla scadenza ci è dato a noi lo scontarle.
Noi abbiamo certezza solo di quelle che abbiamo già scontato in nome e per conto suo.
Non sappiamo quante ne restino ancora da onorare; quante siano prossime al protesto e quante ancora lui ne stia firmando per conservarsi il silenzio sui suoi segreti inconfessabili.
Spero che i segni d’insofferenza che sono emersi in alcuni dei suoi in questi ultimi giorni siano una manifestazione di tardivo ripensamento e che iniettino perciò nella fortezza il tradimento.
E che il tradimento la devasti e lo devasti.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

lunedì 2 agosto 2010

Lo so che sono partigiano! Me ne vanto.


Inutile negare che ragioni d'amicizia mi dettano un gesto sentito e comunque spontaneo. Spontaneo perché non richiesto, ma voluto da me che lo compio.
Del resto in un secolo che pretende il peggio da ognuno di noi mi si vorrà forse ascrivere a colpa il render gentile omaggio ad una buona scrittura e consigliare una buona lettura?
La buona lettura che consiglio è il libro "Che minchione le formiche" scritto da Cinzia Di Mauro,insegnante catanese che opera da tanti anni in una difficile realtà quale quella di Librino. Da quelle realtà o si fugge o le si vive quale condanna.
Cinzia Di Mauro invece è riuscita a dare forma ai sentimenti convulsi e anima a coloro che la città nel suo caotico e frenetico sviluppo ha voluto cacciare, quanto più lontano da sè, ripudiandoli quali figli non desiderati.
Non contentandosi di esser padrona del proprio stile,Cinzia Di Mauro ha fatto in modo, leopardianamente, che il suo stile, fatto di stili sempre differenti, diventasse padrone delle cose.
Io forse sono la persona meno adatta a fare recensioni perché, come gli ubriachi di vino s'inebriano, io di buone letture m'ubriaco.
Vi indico a seguire il link di accesso al pezzo sul Giornale di Sicilia e al blog di Cinzia Di Mauro, www.altrenugae.blogspot.com
http://altrenugae.blogspot.com/p/cmf-sul-giornale-di-sicilia.html

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

La stagione degli astanti

Il fine settimana, visto dalla informazione televisiva e dalla carta stampata, è apparso come punteggiato da bollini rossi o neri, a seconda del grado di pericolo che si voleva segnalare ai viaggiatori. Da lì tutta una serie di avvertimenti e consigli per partenze “intelligenti” snocciolati come i grani di un rosario e biascicati alla maniera di una litania.
Chiaramente le cifre non mancavano di sottolineare, a seconda del punto di vista che si voleva metter in risalto, l’ottimismo per i 22 milioni di italiani che si apprestano o sono già andati in vacanza e il pessimismo di chi rimarca che solo un italiano su tre si potrà quest’anno concedere una vacanza, breve o lunga che sia.
Non essendo personalmente affetto né da pessimismo cronico né avvezzo ai facili ottimismi, mi pongo ben altre domande di cui non ho trovato né traccia né, conseguentemente, riflessione critica.
Nessuno, inteso la stampa attenta, sembra prestar attenzione alle vere domande da porsi, alle vere questioni “intelligenti” su cui riflettere: chi sono coloro che non partono e cosa faranno?
I quesiti appena posti, in una società civile, riceverebbero almeno pari attenzione a quella prestata alle esigenze e ai bisogni di chi parte.
Il dato anagrafico di chi non parte e i modi con cui questi mancati vacanzieri impiegheranno questo tempo (in altre condizioni economiche impiegato in vacanze) è fondamentale per modulare la qualità e l’offerta dei servizi alla inopinata domanda supplementare che quest’anno si riverserà nelle nostre città.
Indipendentemente dal livello di qualità e di efficienza dei servizi offerti negli anni passati, senz’altro quest’anno gli stessi risulteranno insufficienti in grado e misura variabile al livello di sensibilità che le amministrazioni locali, gli esercenti di pubblici locali e le attività economiche avranno prestato al problema.
Difficilmente la scelta di non partire matura nelle ultime settimane, vero è semmai il contrario.
Analizzare per tempo questo dato, quello di coloro che non partono; sapere per tempo a quali fasce anagrafiche appartengono, a quali ceti sociali; avrebbe consentito di modulare sia i servizi sia l’offerta delle opportunità di impiego del tempo libero.
E’ palese che una popolazione di anziani necessita in misura maggiore di servizi rispetto ad una popolazione più giovane che rivolgerà alla città ben altre domande.
Le amministrazioni locali e gli esercenti invece sembrano ricalcare abitudini lontane ormai anni luce dalla realtà: quello delle città desolate nel mese di agosto, con negozi chiusi, riduzione delle corse dei mezzi pubblici, del personale nelle strutture ospedaliere, locali che rimandano i propri clienti e frequentatori al mese di settembre augurando buone ferie etc.
Poi magari per mesi i dipendenti sono stati logorati, a compenso chiaramente quasi immutato, con aperture full time, con chiusure alle ore 22, con aperture domenicali e festive, per offrire nuove e più vaste possibilità di acquisto alla clientela. Mentre le si negano a chi, non potendo partire, può cercare consolazione facendo acquisti, visitando mostre, frequentando locali, prendendo mezzi pubblici, vivendo insomma la città che, se non svuotata, sicuramente appare meno soffocata rispetto al periodo invernale.
Eppure basterebbe pensare a come, in caratteri cinesi, è scritta la parola “crisi”: due simboli di cui uno rappresenta il “pericolo” l’altra “l’opportunità”, quelle che ovviamente non siamo più in grado di cogliere.
Del resto, direbbe Cechov, “qualsiasi idiota può superare la crisi; è la vita quotidiana che invece ti logora”.
Consolatevi comunque o voi che restate! Neanche il Basso Sultano andrà quest’anno in vacanza.
Dopo aver invitato un anno fa gli aquilani ad andare in vacanza; dopo aver prestato la sua voce e il suo volto per invitare gli italiani ad “impiegare le proprie vacanze in Italia”; lui invece resterà, tapino, nella sua villa in Sardegna per dedicarsi al lavoro per il partito e per gli italiani.
Qualcuno dice, male lingue naturalmente, che il Basso Sultano porti sfiga, agli altri chiaramente.
Dicerie degli untori della sinistra. Non abbiamo dubbi in proposito.
Intanto “Il Ventaglio” ha finito di soffiare e a soffiarsi sono rimasti i dipendenti senza lavoro.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania

martedì 27 luglio 2010

Il tempo che non scorre

Lo scrittore spagnolo Camilo José Cela Trulock amava ripetere che "alla disgrazia uno non si può abituare, perché sempre abbiamo l'illusione che quella che stiamo sopportando debba essere l'ultima, sebbene in seguito, con l'andare del tempo, incominciamo a persuaderci, e con quanta tristezza, che il peggio deve ancora venire."
Cela indubbiamente possedeva una visione pessimistica della vita e negativa del mondo, nulla a che vedere con l'ottimismo dei tempi moderni che ci propinano certi mezzi busti televisivi.
Eppure questo tema della disgrazia che si presenta e non ci da neanche l'illusione di saperla sopportare per scoprirsi subito antipasto di disastri maggiori, oggi torna più attuale che mai.
E ci gustiamo queste amare portate partendo da lontano, cioè da ieri, per scoprire che il tempo della politica e dei vizi della politica è un non-tempo dove passato, presente e futuro si fondono in un unico lungo momento, al punto che il presente, agostinianamente, sembra sparire stirato come tra passato e futuro.
Nel luglio del 1989 viene nominato Ministro dell'Interno (perché ormai questa è la dizione corretta, non più Ministro degli Affari Interni, segni del tempo che scorre) Antonio Gava, leader campano della corrente democristiana del "grande centro". Al suo insediamento il neo ministro nomina quale capo della segreteria il professore liceale di filosofia Raffaele Lauro, attuale senatore quota PdL e Prefetto, originario di Sorrento, precedentemente distintosi esclusivamente quale organizzatore del collegio elettorale del neo-ministro Gava.
Ci soffermiamo sulla carica di Prefetto perché, curiosamente, il sito del Senato della Repubblica, nella scheda con i dati anagrafici e gli incarichi, la definisce "professione"; non più dunque organo monocratico dello Stato la carica di Prefetto, ma professione.
Nell'ottobre del 1990 il Ministro Gava, per problemi di salute è costretto a dimettersi ma l'ex professore, ora senatore e prefetto, Lauro viene incoraggiato dal suo sponsor politico a restare a disposizione del suo successore, Vincenzo Scotti, anche lui campano, anche lui schierato con la corrente democristiana del "grande centro".
Gava per assicurare continuità di gestione induce il fedele successore Scotti a dare più potere a Lauro, nominandolo Capo di gabinetto del Viminale, incarico che chiamando ad un'azione capillare e costante di coordinamento dei capi di Direzione, che sono tutti Prefetti, pretenderebbe esser ricoperto da un esperto in discipline amministrative, titoli che Lauro non possedeva al tempo.
Scotti decide allora di proporlo al Governo per la nomina a Consigliere della Corte dei Conti, l'organo massimo di autogoverno della magistratura amministrativa, per dotarlo, una volta nominato magistrato amministrativo, di tutte le credenziali necessarie per assumere l'incarico di Capo di gabinetto.
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 5 dicembre 1990 provvede alla nomina suscitando le comprensibili e immediate proteste dei magistrati amministrativi, che si concretizza nel veto a quella nomina, in quanto il candidato è troppo giovane e sprovvisto di titoli, pronunciata da parte del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti.
Il Governo, punto sul vivo, decide di impuntarsi su questa candidatura e di far valere appieno la propria prerogativa di nomina del 20% dei magistrati della Corte dei Conti.
Allora come oggi sarebbe esercizio vano il ricordare che i padri costituenti vollero lasciare questa e altre prerogative al Governo e al Parlamento non per consentire a questi di piazzare nei posti vacanti i trombati della politica o per farne questioni di puntiglio con i magistrati, ma per poter far accedere a questi alti incarichi anche esperti giuridici e docenti universitari, di chiara e riconosciuta fama, ma non togati.
Ad ogni buon conto in quel caso l'Esecutivo fece i conti senza la Corte dei Conti che immediatamente assegnò l'ex professore di filosofia presso l'ufficio di Palermo della Corte dei Conti, l'ufficio preposto al controllo degli atti della regione siciliana.
La situazione assume a questo punto connotati ancor più tragicomici in quanto Scotti non si da per vinto e propone al Consiglio dei Ministri la nomina di Lauro a Prefetto allo scopo di elevarlo a pari grado dei prefetti e di spegnere sul nascere ogni polemica circa la possibilità di ricoprire l'incarico di Capo di gabinetto.
Lauro viene nominato prefetto tra le manifestazioni di esultanza dei prefetti in carica dato che l'ex professore, ora Prefetto, passando alla gerarchia prefettizia, è costretto a rinunciare al ruolo di magistrato amministrativo, ma può conservare lo stipendio di consigliere della Corte dei Conti, ammontante allora a 8 milioni di lire mensili, ossia il doppio di quello percepito al tempo dai prefetti.
Per l'obbligo di perequazione esistente negli stipendi dei funzionari statali pari grado, se uno di loro riceve una remunerazione maggiore pur avendo meno anni di anzianità, anche gli altri pari grado devono vedere i propri stipendi "galleggiare", ossia portati allo stesso livello.
Essendo l'ex professore Lauro il più giovane tra tutti i prefetti in esercizio al tempo ma contemporaneamente quello con lo stipendio più alto, le casse dello Stato dovettero adeguare tutte le retribuzioni mensili dei prefetti d'Italia al prefetto voluto da Gava e Scotti.
Come si può ben leggere le insane abitudini e vizi della cattiva politica non hanno mai un tempo e soprattutto un termine.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

mercoledì 21 luglio 2010

E' potuto accadere e sappiamo che accade ancora.

Leonardo Sciascia nell'introduzione che scrisse per una nuova edizione della "Storia della colonna infame" riporta tra gli altri un aneddoto legato ad Ugo Foscolo il quale, nel Gazzettino del bel mondo così scriveva: «Addison vide in Milano la colonna infame eretta nel 1630, a ignominia di un barbiere e di un commissario di sanità. […] La vide nel 1700, e ricopiando l’iscrizione, che gli parve di elegante latinità, narra bonariamente il fatto, come s’ei l’avesse creduto»
E rispondendo a distanza di secoli all'indignazione del Foscolo per l'insensibilità mostrata dall'Addison, turista svagato e come tale più attento al bel latino che ai contenuti, Sciascia sosteneva che neanche il bel italiano del Manzoni era riuscito a scuotere le coscienze degli italiani che si erano semplicemente limitati ad abbattere la colonna, oramai più motivo d'infamia per chi la eresse che non per i condannati.
Questa triste storia la si era semplicemente voluta seppellire e con essa anche l'opera citata del Manzoni rimasta semi sconosciuta ai più nel nostro Paese.
E' potuto accadere tutto ciò in passato. Purtroppo sappiamo che accade ancora oggi.
La donna raffigurata nella foto a sinistra è Sakineh Mohammadi Ashtiani, una madre di 42 anni, detenuta perchè accusata di adulterio sulla base di una confessione estorta dopo una punizione di 99 frustate.
Il semplice fatto che una confessione così ottenuta non sia certamente spontanea dovrebbe far riflettere tutti ma se a questa violenza sommiamo la circostanza che questo adulterio si sarebbe consumato dopo che suo marito era morto e quindi la donna era di fatto vedova, la condanna a morte inflitta alla donna risulta tragicamente grottesca.
L'accusa formale per cui è stata incriminata nel 2006 è quella di aver avuto rapporti sessuali con due uomini fuori dal matrimonio, rapporto che evidentemente si prolunga ben oltre l'esistenza in vita del marito e dunque degna, secondo un tribunale islamico, di condanna alla pena di morte per lapidazione, condanna che è stata nel 2007 confermata, con identiche modalità di esecuzione, dalla Corte suprema iraniana.
La pena di morte comminata con lapidazione è di fatto una tortura protratta fino alla morte dato che la vittima deve essere sotterrata in modo da lasciar emergere dal terreno solo la testa, trasformata così in bersaglio da centrare con pietre appuntite e taglienti ma non sufficientemente grandi da poterle infliggere immediatamente la morte.
All'interno delle istituzioni iraniane si è aperto un dibattito sulla legittimità della condanna e sulla vergogna che ricadrà su tutta la Repubblica islamica se ancora una volta una donna verrà lapidata, confronto che dal 2007 è ancora in corso e che se non è approdato ad un ripensamento della condanna ha ottenuto il pregevole risultato di bloccare l'esecuzione a tutto dì.
Sul sito
http://freesakineh.org/ migliaia di firme si aggiungono di ora in ora a quelle di chi ha lanciato l'appello.
Ci sono momenti in cui anche Berlusconi può andare al diavolo e per un giorno può fare a meno delle mie attenzioni.
Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, Catania