mercoledì 29 settembre 2010

L'ora della verità

Jonathan Swift sosteneva che "il capo del governo inglese non dice mai una cosa vera senza l'intenzione che sia presa per una menzogna; non dice mai una cosa falsa, se non con lo scopo che sia presa per la verità."
E non aveva ancora conosciuto il nostro di capo del governo.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania


PAPI - Tafano broders

venerdì 24 settembre 2010

Se avete gradito la prima....

Prometto che è l'ultima della serie....
Non intendo continuare per questa via....
Come sosteneva Oscar Wilde "ridere non è affatto un brutto modo per iniziare un'amicizia".
Questo post è dedicato a tutti gli amici, vecchi e nuovi, presenti o che verranno

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

martedì 21 settembre 2010

Quando la parola non aggiunge nulla

L'artista è capace di esprimere in versi ciò che altri esprimono solo con la prosa.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

lunedì 6 settembre 2010

Storia e sbarchi


“Canto l’uomo che primo da Troia venne in Italia”. Così Virgilio apre il primo libro dell’Eneide accingendosi a raccontare le vicende di Enea che fugge dalla sua terra natia, devastata dalla guerra, e migra verso altri lidi che auspica più ospitali e felici e dove spera di poter ridisegnare il proprio avvenire e garantirlo migliore alla propria discendenza.
Il viaggio che lo conduce “sui lidi di Lavinio” è a “lungo travagliato e per terra e per mare”, come quello che migliaia di uomini compiono ogni anno per sbarcare sulle nostre spiagge e lasciarsi alle spalle guerra, persecuzioni e miseria, perché Enea ieri, come loro oggi, “molto soffrì anche in guerra”.
Noi rileggiamo la storia del “profugus” Enea mentre contemporaneamente altri profughi, novelli Enea con le loro speranze, timori e ricordi delle terre lasciate, a distanza di qualche miglio, celebrano il loro sbarco sui nostri lidi.
La storia delle migrazioni degli uomini è sempre la stessa da secoli: è un cielo costellato di abbandoni, lacrime, speranze, lutti, fallimenti e successi.
Cambiano però le società che accolgono questi esuli e il loro grado di civiltà nell’accoglierli e offrire loro la possibilità di programmare un futuro diverso dal passato che si lasciano alle spalle.
Quasi quindici secoli fa imbarcazioni cariche di disperati salpavano dal Nordafrica, dal Medio Oriente, dai Balcani, e attraversavano il Mediterraneo alla ricerca di una nuova vita in Italia per sbarcare in Sicilia e in Calabria dove venivano accolti dalle locali autorità che provvedevano a sfamarli e ad organizzare la loro sistemazione o in loco o facendoli affluire più a Nord, verso Roma. Non erano, come oggi, i dannati della terra in fuga dalla miseria: erano i profughi dell’immenso sfacelo dell’impero romano. Era il tempo dove dallo sfacelo non fuggivano i poveri visto che quelli restavano sul posto e imparavano a convivere con i nuovi padroni assumendone con il tempo l’identità. Fuggivano invece i componenti della classe dirigente, vescovi, generali, latifondisti, senatori, chierici e monaci, animati dalla certezza che l’impero avrebbe saputo ricollocarli e far uso del loro capitale umano. Per loro non c’era al di la del mare l’ignoto dato che tutti loro parlavano latino o greco e si sarebbero ritrovati a casa loro in un’Italia ancora cosmopolita. Un orizzonte ben diverso rispetto a quei profughi d’oggi che si usa etichettare come i nuovi schiavi, e che assomigliano a quelli che per lunghi secoli il Mediterraneo ha riversato nei porti d’Italia.
Alessandro Manzoni, nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi, nel descrivere il pranzo di nozze offerto dal marchese, erede di Don Rodrigo, ai novelli sposi Renzo e Lucia; non manca di sottolineare, con un garbato rilievo, “l’umiltà” del marchese il quale prima di ritirarsi a pranzare altrove con Don Abbondio, volle stare lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli.
Ironicamente il Manzoni subito ammonisce il lettore dal pensare che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola, perché il marchese era un brav’uomo, ma non (…) un originale, come si direbbe ora – e aggiungiamo noi come si direbbe ancor oggi e non solo ai tempi del Manzoni – v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. La vera umiltà è nel cuore e nell’animo dell’uomo e non nelle esibizioni esteriori.
Se l’Innominato, in una profonda costrizione interiore, ha saputo mettersi alla pari con i suoi perseguitati, il marchese non può perché il suo ruolo è piuttosto esteriore e il gesto di aiutarli e servirli è più un atto di umiliazione che di umiltà.
N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.
Se anche noi – tutti! – quotidianamente anziché assumere l’atteggiamento occasionale dell’umiliazione, del metterci al di sotto di quella buona gente, adottassimo l’habitus mentale e morale perenne dell’umiltà, dell’istar loro in pari, probabilmente raggiungeremmo risultati lusinghieri ed egregi nella via che conduce alla società multietnica e multiculturale.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania

Cercare e cercarsele.


Personalmente sono uno "che se le cerca".

Uso volontariamente quest'espressione recentissima, pronunciata da una nostra vecchia (nel senso pieno ed esaustivo del termine) conoscenza romana, per definire il sacrificio di un servitore dello Stato.

Ma ormai in un calendario laico pieno di eroi mafiosi, di perseguitati piduisti, di martiri corruttori, un posto, un giorno lo si troverà anche per il Giulio romano.

Io, come anticipavo nell'incipit, cerco notizie, le commento e le restituisco al mondo che me le fornisce per riceverle arricchite dai commenti di chi mi gratifica leggendomi.

E' innegabile dunque che "chi cerca" se le "cerchi".

Tra le notizie degli ultimi giorni mi sono imbattuto in una nota d'agenzia che riportava la notizia del controllo della polizia inglese effettuato su Mario Balotelli, fermato alla guida di un'autovettura e trovato dagli agenti con qualche migliaio di euro in contanti.

Tralascio la risposta spocchiosa del ragazzino ("sono ricco e me lo posso permettere") avrà modo e tempo di trovare da se ridicole queste affermazioni. Mi concentro invece sull'episodio in sé che mi appare curioso e segna i tempi: il dover giustificare il possesso del denaro che si tiene in tasca.

Curioso perché agli albori dell'unità d'Italia erano gli inglesi a rimproverarci e ad additarci alla pubblica opinione del tempo quale regime poliziesco.

Il conte di Cavour durante una riunione nel circolo dei nobili di Torino su vantò del rispetto dei principi liberali che distingueva la polizia nel Piemonte sabaudo al punto da non esser, per rispetto della libertà individuale, inferiore a quella inglese.
Racconta una cronaca del tempo che tra gli invitati vi fosse un giovane cronista inglese che rivolgendosi al conte di Cavour gli disse: “Signor capo del governo, per tagliar corto alle discussioni accademiche facciamo una scommessa: prima di notte senza violare alcuna legge sarò imprigionato.”
Conoscendo il gusto per la scommessa degli inglesi e non volendo esser scortese, Cavour accettò, quasi per “onor di firma”.
La cronaca così prosegue: “Il giovane inglese, uscito di là, si truccò mirabilmente da cialtrone, indi, a sera inoltrata, si ridusse in una bettola di Piazza Italia dove bazzicava la gente di malaffare. Bevette vistosamente, poi, quando gli parve esser abbastanza brillo, estrasse per pagare un involto contenente alcuni biglietti da mille. Tanto bastò! Venne adocchiato, denunziato, ghermito. Quando fu in carcere, mandò al suo contraddittore due righe di lettera: Signor conte sono in prigione senza aver fatto niente, venga a liberarmi.”
Gli inglesi vittoriani si stupivano allora della possibilità che, nell’Italia liberale, si potesse esser arrestati senza alcun motivo.
E si stupiscono ancora oggi per il fatto che nel nostro paese, dopo un secolo e mezzo, non si possano rivolgere domande al Basso Sultano per indagare l'origine delle sue fortune economiche.
Ma quello era il XIX secolo, altri tempi, tempi bui, diversi dai nostri ossigenati dagli zefiri della democrazia e della giustizia e dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania