lunedì 25 ottobre 2010

Corrispondenza non gradita


Per tutti coloro che non desiderano ricevere il libro "Due anni di governo" del Presidente del Consiglio e ritengono che queste somme andrebbero spese meglio, vi faccio leggere la mail che ho inviato al seguente sito governativo:

"Il sottoscritto D'Urso Giuseppe, residente a Catania in................., facendo riferimento all'annuncio del Presidente del Consiglio On. Silvio Berlusconi di inviare ad ogni famiglia italiana il libro "Due anni di governo"
con la presente intende comunicarVi che desidero assolutamente NON riceverlo, essendo un mio diritto in base al D. lgs 196/03 per la tutela della privacy e il relativo D. P. R. n. 501/1998, nella fattispecie articolo 13 comma e), e che la spesa relativa che si risparmierà, venga messa a disposizione del Ministero della Pubblica Istruzione e/o del Ministero della Sanità.
Ringraziando per l'attenzione con la presente porgo
Distinti Saluti.

Catania, 25 ottobre 2010

In fede

D'Urso Giuseppe

Chi desidera destinare a miglior sorte queste somme di denaro spese inutilmente può se lo ritiene opportuno trarne giovamento.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

venerdì 22 ottobre 2010

Mandate a dormire i bambini

Le righe che seguono non sono adatte ad un pubblico di minori perché leggendole potrebbero vederci nudi, spogli delle nostre mistificazioni e luccicanti delle nostre perversioni.

Pier Paolo Pasolini denunciò per primo in Italia, in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 9 dicembre 1973, la mutazione totalitaria che avrebbe determinato nella società italiana il nuovo potere della televisione, in un momento in cui dominava il monopolio paludato e perbenista della RAI-Tv pubblica e la televisione privata fosse solo agli albori. All’epoca l’allarme pasoliniano venne liquidato come eccessivo, pessimistico, antimodernista e ideologico. Ma riletto oggi appare per quello che era: una profetica identificazione dei tratti portanti della neo-civilizzazione della società italiana portata avanti negli anni Ottanta da parte delle Tv berlusconiane.

Pasolini argomentò, storicizzandoli, i pericoli totalizzanti connessi al nuovo potere televisivo, che definì nuovo fascismo, il potere “più violento e totalitario che ci sia mai stato” in quanto “esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze”.

Il fascismo mussoliniano “proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole.

La televisione, intesa chiaramente non come “mezzo tecnico , ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa” non si limita semplicemente a trasmettere i messaggi, ma è essa stessa “un centro elaboratore di messaggi. E’ il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E’ attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

L’autorità e la repressione operata dalla televisione è nettamente superiore a quella operata dai mezzi d’informazione di epoca fascista: “il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere”.

Se il fascismo non è riuscito con tutta la propaganda messa in atto nemmeno a scalfire “l’anima del popolo italiano” la televisione “non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Milioni di italiani, di qualunque età o fascia sociale, giocano come si fa in tv, mangiano come dice la tv, spendono come vuole la tv, vestono come hanno visto in tv, pensano in base alla tv, discutono di quello che ritiene la tv, piangono quando piange la tv, ridono quando ride la tv, sognano davanti alla tv, parlano come si parla in tv, scopano come vedono fare in tv, sono tristi o allegri a seconda di come lo è la tv, e la loro massima aspirazione è di comparire in tv. Per milioni di italiani, di qualunque età o ceto sociale, i divi televisivi sono “amici”, sono “gente di casa”, persone che fanno parte del quotidiano e come tali sono amati, ammirati, ascoltati, imitati. Tutto è tv, e ciò che non è tv non è.

Pier Paolo Pasolini venne brutalmente ucciso la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 nell’idroscalo di Ostia mentre il piano di rinascita democratica piduista si sviluppava allestendo una catena di Tv private “coordinate in modo da controllare la pubblica opinione media” come quella che iniziava a sviluppare l’emittente segratese Telemilano di proprietà berlusconiana proprio in quegli anni.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

venerdì 15 ottobre 2010

Le parole forse pesano, ma si pagano anche con la vita.

“Nascondere la verità significa interesse a celare un crimine, e significa perciò essere complici di quel crimine.”
Giuseppe Fava, giornalista siciliano, ucciso dalla mafia.

Giuseppe Fava, giornalista ucciso il 5 gennaio 1984 dalla mafia a Catania, nel 1982 fonda I Siciliani, rivista mensile che si ribella a Catania, città del monopolio dell’informazione locale, ai comitati d’affari che controllano la città e interagiscono anche con i poteri politici romani e con gli spregiudicati imprenditori settentrionali.

Nel numero di luglio del 1983 Fava firma un lungo articolo, intitolato “I 10 più potenti della Sicilia” , dove vengono passati in rassegna i 10 uomini potenti della Sicilia attraverso le cinque componenti essenziali che caratterizzano le manifestazioni del potere e che il giornalista individua nel denaro, nell’autorità dello Stato, nella forza politica, nella popolarità e nel talento.

In questa nostra società - sostiene Fava pensando e guardando la società italiana da Catania - comanda soprattutto chi ha la possibilità di convincere. Convincere a fare le cose: acquistare un’auto invece di un’altra; un vestito, un cibo, un profumo, fumare o non fumare, votare per un partito, comperare e leggere quei libri. Comanda soprattutto chi ha la capacità di convincere le persone ad avere quei tali pensieri sul mondo e quelle tali idee sulla vita.

Il comando è dunque capacità di persuasione a fare per modificare pensieri e comportamenti dell’opinione pubblica e in questa società così delineata fatta di teleconsumatori “il padrone è colui il quale ha nelle mani i mass media, chi possiede o può utilizzare gli strumenti dell’informazione, la televisione, la radio, i giornali, poiché tu racconti una cosa e cinquantamila, cinquecentomila o cinque milioni di persone ti ascoltano, e alla fine tu avrai cominciato a modificare i pensieri di costoro, e così modificando i pensieri della gente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, tu avrai creando la pubblica opinione la quale rimugina, si commuove, s’incazza, si ribella, modifica se stessa e fatalmente modifica la società entro la quale vive. Nel meglio o nel peggio!

Giuseppe Fava conosceva l’atto d’accusa di nuovo fascismo che Pasolini aveva lanciato al potere detenuto dalla televisione, intesa chiaramente non come “mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa”.

Questa requisitoria pasoliniana era stata scritta e pubblicata dal Corriere della Sera nel dicembre del 1973 e metteva sul banco degli imputati la RAI quale monopolizzatore unico dell’emittenza televisiva. Da lì a poco sarebbero iniziate a sorgere le tv private locali e a proliferare le radio private libere, fenomeni che Pasolini non sarebbe riuscito a veder sorgere e studiare perché venne barbaramente assassinato prima.

Giuseppe Fava assistette a queste “lotte di singoli o di gruppi per rivendicare libertà assoluta di informazione e indipendenza critica” e senz’altro nutrì una cauta fiducia nelle possibilità di liberare l’informazione dal giogo padronale pur consapevole che “la regola è sempre quella, e cioè che le macchine della informazione appartengono al padrone, e quindi anche pensieri e idee di coloro che usano le macchine per informare la società, debbono essere quelle dei padroni.

Il tema del potere dell’informazione “ingigantito dalla impossibilità di opposizione, può garbatamente amministrare anche la fortuna degli altri, agevolare o contrastare le grandi potenze economiche, ostacolare o favorire gli accumuli di ricchezza, determinare la destinazione del denaro pubblico, la crescita o la decadenza di un uomo politico, la sonnolenza o la ribellione di un grande organo giudiziario.

A volte – e noi che viviamo nella società prodotta dalla neocivilizzazione berlusconiana lo sappiamo benissimo - basta omettere una sola notizia e un impero finanziario si accresce di dieci miliardi; o un malefico personaggio che dovrebbe scomparire resta sull’onda; o uno scandalo che sta per scoppiare viene risucchiato al fondo.

Nell’autunno del 1979 la Fininvest, società costituita da 23 holding e alla cui presidenza era stato nominato dal consiglio d’amministrazione Silvio Berlusconi, aveva originato una serie di società “televisive” quali Publiitalia srl, Rete Italia srl, Cofin spa e Canale 5 srl, società intestata ad un prestanome alla quale viene conferita la proprietà di Telemilano, la tv condominiale creata da Silvio Berlusconi nel settembre del 1974, che infatti inizia a trasmettere con il nuovo logo Canale 5.

“L’avvento delle televisioni private, moltiplicando gli strumenti di informazione, pareva avesse stravolto gli antichi assetti di potere, determinando una caotica ma febbrile evoluzione della conoscenza popolare” ed in effetti era iniziato un proliferare di iniziative in tutta la penisola che comunque pur restando il loro ambito circoscritto per legge a quello locale avevano la possibilità di informare ed indagare meglio il territorio.

Ma il piano di rinascita che eseguiva Silvio Berlusconi non poteva esser fermato da una legge e da due pronunciamenti della Corte Costituzionale per cui la diffusione sul piano nazionale, vietata dalla legge, veniva aggirata con la registrazione di cassette contenente anche gli spazi pubblicitari da mandare in onda che venivano consegnate a mano alle emittenti che entravano nell’orbita del nascente network, aggirando così il divieto di diffusione via etere.

Quello che doveva esser un movimento di libertà dell’informazione e di rottura della monolitica informazione della RAI si riduce ad un proliferare di furbi con l’editore Rusconi che nel gennaio 1982 fonda il network di 18 emittenti televisive chiamato “Italia 1” contemporaneamente all’editore Mondadori che crea il network televisivo “Rete 4” costituito da 23 emittenti.

In capo ad un anno Rusconi aveva già ceduto a Silvio Berlusconi il network “Italia 1”e qualche mese dopo la morte di Fava anche Mondadori cedette “Rete 4” a Silvio Berlusconi che poteva dare trionfalmente inizio alla demolizione della cultura, dei valori e dei comportamenti di milioni di italiani: “lo strumento è dapprima decaduto a semplice e spesso squallido spettacolo, e infine, con il sopraggiungere dei net-work è stato anch’esso consegnato alle mani dei tradizionali padroni dell’informazione.

E questi padroni dell’informazione sono rappresentati dal “grande capitale settentrionale” che inizia ad affacciarsi ormai da diversi mesi nel campo editoriale e televisivo anche in Sicilia mentre Fava ne scrive la denuncia. Non poteva a Fava sfuggire che la Fininvest era diventata azionista con la quota del 4,71% delle azioni dell’unico quotidiano oggi del più potente al tempo in cui Giuseppe Fava.

Quella che poteva essere una grande rivoluzione tecnica e civile, cioè una autentica presa di potere da parte di un giornalismo inteso nel senso più alto e morale del termine, si è risolto in una ulteriore colonizzazione culturale.

E in queste sue parole leggiamo tutta la delusione di un uomo, di un siciliano, di un giornalista che vede svanire l’ultima illusione e che da lì a pochissimi mesi pagherà con la vita, ad opera della mafia, le sue incessanti denunce ai loschi intrighi dei comitati politico-affaristico-mafiosi.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.





lunedì 11 ottobre 2010

Dal Wall al Web (II parte)


Nel sistema della Guerra fredda la struttura del potere ruotava essenzialmente attorno allo stato-nazione e l’equilibrio era mantenuto dalla tensione che si sviluppava tra queste due Super stati-nazione con i singoli stati più deboli che venivano da queste super-potenze attratti alla loro sfera d’influenza, come la limatura di ferro è attratta in modo repentino ed inesorabile da un potente magnete.

Il sistema della globalizzazione ruota intorno a tre equilibri che si sovrappongono ed influenzano a vicenda.

Il tradizionale rapporto di equilibrio di potere tra stati-nazione, dopo la dissoluzione dell’impero sovietico, è stato sconvolto ed ora il panorama mondiale è dominato da una sola superpotenza: gli Stati Uniti: sono loro appunto ad esercitare il precedente ruolo senza più un stato-nazione opposto; ma pur muovendo molte pedine nello scacchiere mondiale degli equilibri di potere, gli Stati Uniti non le muovono tutte.

Il monopolio delle grandi super-potenze (anzi più correttamente il “duopolio”) è stato incrinato dall’affermazione nel sistema degli equilibri di un nuovo soggetto rappresentato da quei mercati globali, costituiti da milioni di investitori che muovono denaro in giro per il mondo con il semplice click del mouse. Questo universo variegato e vasto di investitori, che Friedman chiama mandria elettronica, ama darsi convegno in alcuni grandi centri finanziari del mondo, quali Wall Street, Londra, Hong Kong, Francoforte e altri, dal nostro definiti super-mercati: è in questi templi che si officiano i riti della finanza e decidono i destini economici di imprese, di intere nazioni e di singoli individui e la rete consente a tutti di esser spettatori se non protagonisti di questo “spettacolo edificante” dove uomini e cose si sciolgono in cifre in un luogo geografico e si materializzano in ricchezza o in miseria in un altro punto del globo.

Per comprendere meglio il gioco degli equilibri che si viene ad istaurare tra i due elementi (stati-nazione e super-mercati) basta pensare che al tempo della guerra fredda per rovesciare il governo di un paese bisognava, da parte delle superpotenze, sommergerlo di bombe, mentre oggi basta, da parte dei super-mercati abbassare il rating di quel paese per mettere in seria difficoltà, e possibilmente rovesciarlo, il suo governo.

Infine vi è un terzo polo di equilibrio che deve necessariamente esser ricercato dai due precedenti e che ha goduto di poca, anche se qualificata, pubblicistica che comunque non è stata sufficiente a raggiungere l’immaginario e la conoscenza collettiva, probabilmente perché si tratta di interlocutori, prima della globalizzazione, sconosciuti in queste vesti e neppure pensati quale dotati di una potenza ed enorme capacità di intervento: gli individui super – potenti.

Questi individui, che possono essere persone meravigliose oppure terribilmente arrabbiate, molto lontane geograficamente e culturalmente da noi oppure estremamente prossime, tramite la rete godono oggi di un potere straordinario che consente loro di comunicare a grande distanza o di parlare in maniera diversa anche con lo stesso vicino con cui potrebbe comunicare verbalmente; di procurarsi in qualunque mercato mondiale qualunque strumento gli sia necessario a costi non più proibitivi e di condurre, con un semplice strumento di posizionamento satellitare, come fino a non molto tempo fa vedevamo solo bei film, qualunque mezzo, senza limitazioni spaziale e temporali.

La globalizzazione funge da moltiplicare straordinario alla potenza dei singoli che possono intervenire in prima persona sulla scena del mondo senza più la mediazione o la limitazione di uno Stato e con una forza infinitamente maggiore rispetto al passato, anche recente al punto che una nazione tecnologicamente avanzata può impiegare mesi per chiudere un buco scavato a 3 km di profondità in un oceano o riportare in superficie uomini a poche centinaia di metri, mentre un singolo individuo può, dal proprio salotto o dalla grotta in cui vive, purché ci sia connessione, far cadere su una città un satellite che ruota in orbita attorno alla Terra a decine di chilometri.

A tutti color che, leggendo quanto esposto, ritengono quest’ultimo punto esagerato, rivolgo questa semplice riflessione: selezionate in rete, tra blog e community a vostra scelta, un individuo molto arrabbiato e che possieda le caratteristiche tipiche dell’opinion leader, pur non essendo ancora conosciuto dal grande pubblico dei media tradizionali; dotatelo di mezzi economici straordinari che gli consentano di potersi dedicare appieno alla propria causa senza le preoccupazioni quotidiane della sussistenza e con la possibilità di procurarsi mezzi tecnologici sempre più avanzati, ed avrete prodotto un nuovo Bin Laden.

E se anche dinanzi a questa evidenza riterrete che in ogni caso, per quanto super-potente, un individuo non possa rappresentare un polo di equilibrio tra i poteri mondiali, vi invito a riflettete sulla circostanza che dal 2001 la più grande potenza mondiale, se non economica, certamente militare, sta combattendo in Afghanistan l’unica guerra nella storia dell’umanità che vede fronteggiarsi frontalmente una super-potenza e un individuo super-potente quale Bin Laden.

In conclusione, per comprendere ed interpretare il mondo globale in cui viviamo, dobbiamo sempre considerare che nel sistema degli equilibri, al fianco delle super-potenze (economiche e militari) vi sono i super-mercati e gli individui super-potenti, persone magnifiche o molto arrabbiate, e che tutti questi tre elementi agiscono ed interagiscono tra loro al punto da condizionarsi a vicenda. - fine.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

Dal Wall al Web


Il tratto saliente del sistema politico, militare ed economico sorto alla fine del secondo conflitto mondiale e conclusosi alla fine degli anni Ottanta, comunemente chiamato sistema della Guerra Fredda, era la divisione e il simbolo per eccellenza di quel sistema era rappresentato da un’unica parola: muro.

Il sistema della globalizzazione, nato alla fine degli anni Ottanta, ha invece quale tratto distintivo l’integrazione ed è anch’esso comunemente rappresentato da un’unica parola: web, ossia la rete mondiale.

Prima di affrontare l’analisi dell’evoluzione dei sistemi di potere e dell’equilibrio che tra loro si stabilisce, definiamo in maniera inequivocabile cosa intendiamo con il termine globalizzazione, per evitare che l’ormai incontrollato uso, diffusione ed applicazione ad ogni contesto lo renda simile ad altro termini, che, per diffusione e abuso nell’uso sono stato a tal punto ridicolizzati da assomigliare più ad un mantra recitato che non ad una metodologia da seguire.

Negli anni Settanta questa sorte tocco in Italia al termine disarticolazione, a tal punto abusato da ritrovarlo in ogni rivendicazione e in tutte le analisi geopolitiche, sia che si parlasse delle poste di Sesto San Giovanni sia dell’impero delle multinazionali, sia dell’etica del mondo del lavoro sia della lotta di classe etc.

Il primo decennio del XXI secolo invece ha adottato quale preghiera scaccia crisi, capace di esorcizzare ogni male, i termini innovazione e ricerca, di cui tutti si riempiono la bocca al punto che in Italia non siamo più capaci di comprendere per quale motivo tutti coloro che la invocano la indicano agli altri quale percorso metodologico da battere e nessuno di coloro che la invoca la intraprenda seriamente; siano essi governi o grandi imprese, piccole e medie imprese o lavoratori.

Probabilmente la risposta al quesito sta nel fatto che innovazione e ricerca costano e qualcuno questi costi li deve pagare: tutti sono pronti a goderne interamente i benefici ma nessuno vuole addossarsi neanche parzialmente i costi. Ma torniamo alla definizione di globalizzazione che voleva fissare.

Personalmente condivido la definizione di “globalizzazione” coniata da Thomas L. Friedman, opinionista americano vincitore di tre premi Pulitzer e curatore di una rubrica bisettimanale sul The New York Times.

Le ragioni di questa predilezione tra le tante definizioni ugualmente valide e condivisibili risiede nell’aver da parte di Friedman individuato quale cuore del fenomeno “globalizzazione” la rete di relazioni e le relazioni attraverso la rete.

Alla luce di quanto affermato intenderò, in questo contributo che condivido, con il termine “globalizzazione” l’integrazione inesorabile e senza precedenti, di mercati, sistemi di trasporto e mezzi di comunicazione che permette alle imprese, alle nazioni ed ai singoli individui di raggiungere i luoghi più lontani con una rapidità, una profondità ed una economicità inusitate e contemporaneamente al mondo di raggiungere, con identica rapidità, profondità ed economicità, le imprese, le nazioni e i singoli individui dai luoghi più lontani.

Il sistema mondiale governato dalla guerra fredda ci dotava delle certezze che eravamo tutti divisi e che al timone si trovavano due persone: i presidenti degli Stati Uniti d’America e dell’Unione Sovietica.

Nel sistema della globalizzazione internet ci assicura che siamo tutti collegati ma che nessuno governa la nave o tanto meno può tracciare la rotta senza rischio che qualcuno se ne accorga.

Tanto più la rete si diffonde, tanto maggiore diventa la reazione di coloro che da tale diffusione si sentono sopraffatti, si considerano omologati, oppure semplicemente si percepiscono incapaci di tenere il passo degli altri.

Quanto più questi individui vengono da noi emarginati, tanto maggiore sarà in loro la rabbia che monterà pronta a scatenarsi contro coloro che, seppur noti o appartenenti alla loro comunità, non riconosceranno più come simili ma temeranno come diversi, solo perché questi avranno iniziato a mutare, attraverso l’uso del web, le proprie categorie di pensiero, aprendosi a realtà concettualmente diverse e geograficamente distanti. - continua...

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

Le officine del dissenso


“Coloro che hanno aperto gli occhi alla gente,

le rimproverano la sua cecità.”

John Milton

Nel 1998 Noam Chomsky, considerato il massimo linguista contemporaneo, ed Edward S. Hermann, docente di finanza alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, pubblicano il saggio Manufacturing Consens, tradotto e diffuso in Italia nello stesso anno, e successivamente ampliato e ristampato, con il titolo La fabbrica del consenso.

Nella pubblicazione i due autori americani dimostrano, dati alla mano, le responsabilità di un occulto consenso d’élite nel dare forma alle notizie svelando i meccanismi attraverso cui il mondo dell’informazione mobilita l’opinione pubblica per sostenere e difendere gli “interessi particolari” che dominano nella società.

La patria del Pulitzer, del giornalismo aggressivo, ostinato, sempre presente sul luogo dell’evento e sempre impegnato nella ricerca della verità, così come viene rappresentato e immaginato dal grande pubblico, non corrisponde alla realtà concreta e alle logiche dettate, imposte o più semplicemente accettate dagli editori e dai giornali americani.

Nei saggi che a partire da oggi inizierò a pubblicare sul blog, e di cui questo scritto rappresenta una sorta di premessa, mi occuperò di quelle che io chiamo le officine del dissenso, per contrapporle alle fabbriche del consenso.

Contrapposizione che già è possibile scorgere nei due termini:

la fabbrica,

quale luogo di produzione industriale per il grande pubblico;

l’officina, luogo invece di produzione artigianale, e spesso di riparazione dei guasti dei prodotti sfornati dalla fabbrica, per un pubblico ridotto, quasi di nicchia.

Finché le dimensioni produttive sono rimaste quelle descritte, e così è stato fino al tempo che ha preceduto la diffusione del web nel mondo, la fabbrica non ebbe motivo di temere assolutamente l’attività dell’officina; anzi quest’ultima rappresentò la valvola di sfogo per coloro che lamentano insofferenza e mancanza di controinformazione, esigenza sempre latente in una società evoluta.

Per quanto l’officina non accettò mai questa convivenza e denunciò sempre le manipolazioni della fabbrica, questa riuscì a soffocare le denunce e la controinformazione grazie al controllo costante dei mezzi d’informazione di cui disponeva, o della cui malleabilità poteva contare, operando vere e proprie strategie di distrazione di massa, per usare una felice ed efficace formula atta a descrivere la martellante e a più voci azione di distoglimento dell’opinione pubblica dai temi concreti di pubblico interesse.

Spesso però la voce del dissenso si faceva insistente, riuscendo a filtrare tra le crepe del macigno posto dai padroni dell’informazione e ad insinuare anche solo semplicemente il dubbio nell’opinione pubblica riguardo le notizie che le venivano date in pasto e di cui preventivamente si era fatto sorgere il bisogno.

In Italia, perché parleremo della realtà italiana, ma non solo ovviamente; questi tentativi nell’era prima del web, sono stati pagati con la vita, ed in genere ci raccontano che è stata solo mafia, mentre ci sarebbe ragione di credere che altri precisi interesse abbiano, se non guidato, senz’altro favorito, la mano delle mafie.

Al lettore sarà data la possibilità in ogni saggio che da oggi in poi sarà pubblicato, di formarsi un’opinione precisa su quali mafie abbiano ucciso gli artigiani del dissenso, le cui colpe, lo ripetiamo erano solo quelle di non allinearsi alle posizioni stabilite dalla fabbrica del consenso e di pretendere di fare corretta e onesta informazione.

Il primo saggio che segue questa premessa, dal titolo Dal Wall al Web, si propone di inquadrare i sistemi di equilibri di potere mondiali nell’epoca precedente all’avvento di internet e nel tempo della diffusione della rete.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

lunedì 4 ottobre 2010

Troppe volte ritornano

Tutto previsto! La solita vecchia musica.
Loro intonano un lamento antico, quello dell'abbassare i toni, sperando che con ciò noi mettiamo la testa sotto la sabbia per ovattare meglio le nostre proteste.
Noi siamo costretti a riscrivere e ritornare sempre sui soliti discorsi.
Dodici mesi fa (22 ottobre 2009) Micromega pubblicava un mio contributo dal titolo "Minacce su Facebook, due pesi e due misure" (http://temi.repubblica.it/micromega-online/minacce-su-facebook-due-pesi-e-due-misure/).
Non è cambiato nulla! Tutto è rimasto immutato! Anche le loro brutte e avide facce.
L'avrei potuto scrivere stamani; lo potrò scrivere domani; lo potrò riscrivere anche tra un anno.
Finché loro saranno presenti nulla cambierà veramente!
Ne riporto un passo per comodità di lettura:
"da qualche giorno, con un sincronismo ad orologeria, veniamo quotidianamente informati di minacce di morte rivolte, in forma di lettera anonima e di gruppi costituiti su social network, al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Minacce, ritenute dai correi del Premier, talmente serie da prefigurare, leggiamo sui giornali di oggi, “l’apologia di reato” e sintomatiche dell’esistenza di un “problema di cultura”; in questo modo si sono espressi il Ministro della Giustizia On.le Alfano e il Ministro dell’Interno, On.le Maroni.
La loro indignazione, mista a preoccupazione, si spinge al punto da chiedere, oltre alla chiusura delle pagine che tramite il web offendono e minacciano Berlusconi, la denuncia degli utenti alla magistratura.
La motivazione manifesta dal Ministro Maroni può esser riassunta in queste righe che riportano fedelmente il suo pensiero: “se passa il concetto che uno può scrivere impunemente queste cose, c'è il rischio che poi a qualcuno venga in mente di metterle in atto. Non riesco a capacitarmi che ci sia qualcuno che possa esprimere l'intenzione di uccidere un'altra persona.” (Corriere della Sera)
Eppure i Ministri Maroni e Alfano non manifestarono le stesse preoccupazioni riguardo alla possibilità di “scrivere impunemente queste cose” quando, nello stesso social network oggetto di attenzione e monitoraggio, si inneggiava alla legittimità delle torture inferte ai clandestini, probabilmente perché conosceva buona parte dei circa 400 iscritti tra cui figuravano il senatore Umberto Bossi, suo figlio Renzo e il capogruppo alla Camera dei Deputati per la Lega Roberto Cota.
Allora possedevano ancora la capacità di distinguere tra la boutade, anche di pessimo gusto quale la minaccia di morte di un individuo, e l’istigazione a delinquere. I fatti delle settimane ormai trascorse hanno dimostrato invece che il picchiare un giorno gli extracomunitari, l’altro gli immigrati clandestini, l’altro ancora gli omosessuali, non sono rimaste lettera morta, ma hanno trovato esecutori ed è venuto in mente a qualcuno di ”metterle in atto” in diverse città d’Italia senza che nessuno pensasse di denunciare alla magistratura i 400 utenti che sotto queste minacce si ritrovavano e, almeno formalmente condividevano.
Non sono a conoscenza di indagini in corso da parte di alcuna Procura della Repubblica riguardo le notizie di reato presenti in quelle farneticazioni, né mi risulta che i due autorevoli rappresentanti del Parlamento Italiano siano stati oggetto di indagini da parte degli organi giudiziari competenti per status e incarico istituzionale."

venerdì 1 ottobre 2010

Il mancato martirio del Belpietro


Puntuale come ogni anno, come le vecchie compagnie teatrali di giro e il circo, ecco l'ennesima replica della pantomima dei falsi attentati.
L'anno scorso ci è stata servita e rappresentata la scena del volo dell'ambrogino; quest'anno cambia l'attore protagonista ma il canovaccio è sempre lo stesso.
Dovremmo dunque credere, stando così le cose che i servizi di scorta sono costituiti da persone da definire quantomeno inette e inadatte allo scopo.
Il Basso Sultano sarebbe dunque scortato da una manica d'imbecilli che, visto colpito il soggetto da proteggere, anziché allontanarsi quanto più rapidamente possibile dal luogo della minaccia, gli fanno tenere un comizio dal predellino dell'auto.
Il giornalista Belpietro invece affiderebbe la propria incolumità a uomini che vedendosi puntata contro una pistola (da un uomo vestito da finanziare: con la camicia e la tuta!!!) anziché compiere un gesto naturale di autodifesa, sparano in aria per intimorire il malintenzionato!
Delle due l'una: o stiamo giocando con il fuoco, qualcuno si diverte a gridare al lupo! e queste responsabilità vanno indagate e punite; oppure qui si vuole accreditare la classica storia ormai trita e ritrita che non si può criticare Berlusconi e i suoi sodali perché altrimenti si aizzano le menti malate e pericolose.
Per quanto mi riguarda è l'ennesima farsa in salsa d'arcore.

Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania