venerdì 15 ottobre 2010

Le parole forse pesano, ma si pagano anche con la vita.

“Nascondere la verità significa interesse a celare un crimine, e significa perciò essere complici di quel crimine.”
Giuseppe Fava, giornalista siciliano, ucciso dalla mafia.

Giuseppe Fava, giornalista ucciso il 5 gennaio 1984 dalla mafia a Catania, nel 1982 fonda I Siciliani, rivista mensile che si ribella a Catania, città del monopolio dell’informazione locale, ai comitati d’affari che controllano la città e interagiscono anche con i poteri politici romani e con gli spregiudicati imprenditori settentrionali.

Nel numero di luglio del 1983 Fava firma un lungo articolo, intitolato “I 10 più potenti della Sicilia” , dove vengono passati in rassegna i 10 uomini potenti della Sicilia attraverso le cinque componenti essenziali che caratterizzano le manifestazioni del potere e che il giornalista individua nel denaro, nell’autorità dello Stato, nella forza politica, nella popolarità e nel talento.

In questa nostra società - sostiene Fava pensando e guardando la società italiana da Catania - comanda soprattutto chi ha la possibilità di convincere. Convincere a fare le cose: acquistare un’auto invece di un’altra; un vestito, un cibo, un profumo, fumare o non fumare, votare per un partito, comperare e leggere quei libri. Comanda soprattutto chi ha la capacità di convincere le persone ad avere quei tali pensieri sul mondo e quelle tali idee sulla vita.

Il comando è dunque capacità di persuasione a fare per modificare pensieri e comportamenti dell’opinione pubblica e in questa società così delineata fatta di teleconsumatori “il padrone è colui il quale ha nelle mani i mass media, chi possiede o può utilizzare gli strumenti dell’informazione, la televisione, la radio, i giornali, poiché tu racconti una cosa e cinquantamila, cinquecentomila o cinque milioni di persone ti ascoltano, e alla fine tu avrai cominciato a modificare i pensieri di costoro, e così modificando i pensieri della gente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, tu avrai creando la pubblica opinione la quale rimugina, si commuove, s’incazza, si ribella, modifica se stessa e fatalmente modifica la società entro la quale vive. Nel meglio o nel peggio!

Giuseppe Fava conosceva l’atto d’accusa di nuovo fascismo che Pasolini aveva lanciato al potere detenuto dalla televisione, intesa chiaramente non come “mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa”.

Questa requisitoria pasoliniana era stata scritta e pubblicata dal Corriere della Sera nel dicembre del 1973 e metteva sul banco degli imputati la RAI quale monopolizzatore unico dell’emittenza televisiva. Da lì a poco sarebbero iniziate a sorgere le tv private locali e a proliferare le radio private libere, fenomeni che Pasolini non sarebbe riuscito a veder sorgere e studiare perché venne barbaramente assassinato prima.

Giuseppe Fava assistette a queste “lotte di singoli o di gruppi per rivendicare libertà assoluta di informazione e indipendenza critica” e senz’altro nutrì una cauta fiducia nelle possibilità di liberare l’informazione dal giogo padronale pur consapevole che “la regola è sempre quella, e cioè che le macchine della informazione appartengono al padrone, e quindi anche pensieri e idee di coloro che usano le macchine per informare la società, debbono essere quelle dei padroni.

Il tema del potere dell’informazione “ingigantito dalla impossibilità di opposizione, può garbatamente amministrare anche la fortuna degli altri, agevolare o contrastare le grandi potenze economiche, ostacolare o favorire gli accumuli di ricchezza, determinare la destinazione del denaro pubblico, la crescita o la decadenza di un uomo politico, la sonnolenza o la ribellione di un grande organo giudiziario.

A volte – e noi che viviamo nella società prodotta dalla neocivilizzazione berlusconiana lo sappiamo benissimo - basta omettere una sola notizia e un impero finanziario si accresce di dieci miliardi; o un malefico personaggio che dovrebbe scomparire resta sull’onda; o uno scandalo che sta per scoppiare viene risucchiato al fondo.

Nell’autunno del 1979 la Fininvest, società costituita da 23 holding e alla cui presidenza era stato nominato dal consiglio d’amministrazione Silvio Berlusconi, aveva originato una serie di società “televisive” quali Publiitalia srl, Rete Italia srl, Cofin spa e Canale 5 srl, società intestata ad un prestanome alla quale viene conferita la proprietà di Telemilano, la tv condominiale creata da Silvio Berlusconi nel settembre del 1974, che infatti inizia a trasmettere con il nuovo logo Canale 5.

“L’avvento delle televisioni private, moltiplicando gli strumenti di informazione, pareva avesse stravolto gli antichi assetti di potere, determinando una caotica ma febbrile evoluzione della conoscenza popolare” ed in effetti era iniziato un proliferare di iniziative in tutta la penisola che comunque pur restando il loro ambito circoscritto per legge a quello locale avevano la possibilità di informare ed indagare meglio il territorio.

Ma il piano di rinascita che eseguiva Silvio Berlusconi non poteva esser fermato da una legge e da due pronunciamenti della Corte Costituzionale per cui la diffusione sul piano nazionale, vietata dalla legge, veniva aggirata con la registrazione di cassette contenente anche gli spazi pubblicitari da mandare in onda che venivano consegnate a mano alle emittenti che entravano nell’orbita del nascente network, aggirando così il divieto di diffusione via etere.

Quello che doveva esser un movimento di libertà dell’informazione e di rottura della monolitica informazione della RAI si riduce ad un proliferare di furbi con l’editore Rusconi che nel gennaio 1982 fonda il network di 18 emittenti televisive chiamato “Italia 1” contemporaneamente all’editore Mondadori che crea il network televisivo “Rete 4” costituito da 23 emittenti.

In capo ad un anno Rusconi aveva già ceduto a Silvio Berlusconi il network “Italia 1”e qualche mese dopo la morte di Fava anche Mondadori cedette “Rete 4” a Silvio Berlusconi che poteva dare trionfalmente inizio alla demolizione della cultura, dei valori e dei comportamenti di milioni di italiani: “lo strumento è dapprima decaduto a semplice e spesso squallido spettacolo, e infine, con il sopraggiungere dei net-work è stato anch’esso consegnato alle mani dei tradizionali padroni dell’informazione.

E questi padroni dell’informazione sono rappresentati dal “grande capitale settentrionale” che inizia ad affacciarsi ormai da diversi mesi nel campo editoriale e televisivo anche in Sicilia mentre Fava ne scrive la denuncia. Non poteva a Fava sfuggire che la Fininvest era diventata azionista con la quota del 4,71% delle azioni dell’unico quotidiano oggi del più potente al tempo in cui Giuseppe Fava.

Quella che poteva essere una grande rivoluzione tecnica e civile, cioè una autentica presa di potere da parte di un giornalismo inteso nel senso più alto e morale del termine, si è risolto in una ulteriore colonizzazione culturale.

E in queste sue parole leggiamo tutta la delusione di un uomo, di un siciliano, di un giornalista che vede svanire l’ultima illusione e che da lì a pochissimi mesi pagherà con la vita, ad opera della mafia, le sue incessanti denunce ai loschi intrighi dei comitati politico-affaristico-mafiosi.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.





3 commenti:

  1. Continuo la pubblicazione dei saggi, contenuti nella raccolta "Le officine del dissenso", con questo mio secondo articolo dedicato alla memoria di Giuseppe Fava. Ricordare è un'attività che non deve mai stancarci.

    Giuseppe D'Urso, insegnante molto precario, da Catania

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  2. Purtroppo la nostra voce non viene tanto presa in considerazioni. Dovremmo farci valere di più.

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  3. Ciao! Avrei voluto esserci anche io a CT, ma non potevo prendermi la giornata libera a lavoro purtroppo. Cmq spero tanto serva a qualcosa. A presto

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