lunedì 11 ottobre 2010

Le officine del dissenso


“Coloro che hanno aperto gli occhi alla gente,

le rimproverano la sua cecità.”

John Milton

Nel 1998 Noam Chomsky, considerato il massimo linguista contemporaneo, ed Edward S. Hermann, docente di finanza alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, pubblicano il saggio Manufacturing Consens, tradotto e diffuso in Italia nello stesso anno, e successivamente ampliato e ristampato, con il titolo La fabbrica del consenso.

Nella pubblicazione i due autori americani dimostrano, dati alla mano, le responsabilità di un occulto consenso d’élite nel dare forma alle notizie svelando i meccanismi attraverso cui il mondo dell’informazione mobilita l’opinione pubblica per sostenere e difendere gli “interessi particolari” che dominano nella società.

La patria del Pulitzer, del giornalismo aggressivo, ostinato, sempre presente sul luogo dell’evento e sempre impegnato nella ricerca della verità, così come viene rappresentato e immaginato dal grande pubblico, non corrisponde alla realtà concreta e alle logiche dettate, imposte o più semplicemente accettate dagli editori e dai giornali americani.

Nei saggi che a partire da oggi inizierò a pubblicare sul blog, e di cui questo scritto rappresenta una sorta di premessa, mi occuperò di quelle che io chiamo le officine del dissenso, per contrapporle alle fabbriche del consenso.

Contrapposizione che già è possibile scorgere nei due termini:

la fabbrica,

quale luogo di produzione industriale per il grande pubblico;

l’officina, luogo invece di produzione artigianale, e spesso di riparazione dei guasti dei prodotti sfornati dalla fabbrica, per un pubblico ridotto, quasi di nicchia.

Finché le dimensioni produttive sono rimaste quelle descritte, e così è stato fino al tempo che ha preceduto la diffusione del web nel mondo, la fabbrica non ebbe motivo di temere assolutamente l’attività dell’officina; anzi quest’ultima rappresentò la valvola di sfogo per coloro che lamentano insofferenza e mancanza di controinformazione, esigenza sempre latente in una società evoluta.

Per quanto l’officina non accettò mai questa convivenza e denunciò sempre le manipolazioni della fabbrica, questa riuscì a soffocare le denunce e la controinformazione grazie al controllo costante dei mezzi d’informazione di cui disponeva, o della cui malleabilità poteva contare, operando vere e proprie strategie di distrazione di massa, per usare una felice ed efficace formula atta a descrivere la martellante e a più voci azione di distoglimento dell’opinione pubblica dai temi concreti di pubblico interesse.

Spesso però la voce del dissenso si faceva insistente, riuscendo a filtrare tra le crepe del macigno posto dai padroni dell’informazione e ad insinuare anche solo semplicemente il dubbio nell’opinione pubblica riguardo le notizie che le venivano date in pasto e di cui preventivamente si era fatto sorgere il bisogno.

In Italia, perché parleremo della realtà italiana, ma non solo ovviamente; questi tentativi nell’era prima del web, sono stati pagati con la vita, ed in genere ci raccontano che è stata solo mafia, mentre ci sarebbe ragione di credere che altri precisi interesse abbiano, se non guidato, senz’altro favorito, la mano delle mafie.

Al lettore sarà data la possibilità in ogni saggio che da oggi in poi sarà pubblicato, di formarsi un’opinione precisa su quali mafie abbiano ucciso gli artigiani del dissenso, le cui colpe, lo ripetiamo erano solo quelle di non allinearsi alle posizioni stabilite dalla fabbrica del consenso e di pretendere di fare corretta e onesta informazione.

Il primo saggio che segue questa premessa, dal titolo Dal Wall al Web, si propone di inquadrare i sistemi di equilibri di potere mondiali nell’epoca precedente all’avvento di internet e nel tempo della diffusione della rete.

Giuseppe D’Urso, insegnante molto precario, da Catania.

2 commenti:

  1. Ciao! come leggi sto visitando il tuo blog, complimentoni! Bravo continua così! A presto!

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  2. Sinceramente non ho capito bene di cosa parli.

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